In arrivo / Cena Nº8 - Giovedì (grasso) 27 febbraio 2014

La maschera, le maschere di sé

con Marzia Scarteddu

L’uomo è meno sé stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità. (Oscar Wilde, Il critico come artista, 1889)

Una maschera ci dice più di un volto. (Oscar Wilde, Penna, matita e veleno, 1889)

Dal rito al teatro, la «finzione» della maschera consegna al tema dell’identità di sé l’immagine di un essere «altro», di sé come un altro, dallo statuto ambiguo: tra verità e menzogna, tra realtà e illusione. Una condizione su cui a volte si perpetua un’ingannevole esperienza di sé.

Però, come qualcuno ha scritto:

nel nostro linguaggio corrente questi opposti coincidono; parliamo di ‘giocare un ruolo’ riferendoci a qualche attività seria della sfera civica […]. E d’altra parte parliamo di una ‘grande interpretazione’ sul palcoscenico come della fonte di alcune delle nostre cognizioni più profonde e più ‘vere’ della condizione umana. (Victor Turner, Dal rito al teatro)

Per altro, l’ambiguità della metafora rituale o teatrale dell’immagine di sé sembra contenere l’espressione di un conflitto, di una contesa, che non investe solo la scena pratica della nostra vita sociale, ma anche quella della nostra quotidiana vita interiore. Segnala la differenza, lo scarto drammatico di un vissuto, che sussiste tra il volto e la maschera.

Così la ritualità della maschera sembra fare da cornice agli interrogativi che hanno dato vita alle nostre cene precedenti, alla difficoltà di dare una risposta alla domanda Chi sono io?, sulla identità di sé: liquida? fragile? illusoria? Al tempo stesso, può essere strumento utile per riflettere sul difficile compito della sua costruzione.

Ad aiutarci in questa riflessione parteciperà Marzia Scarteddu, regista teatrale e formatrice nell’ambito della comunicazione.

1. Il volto è la nostra maschera…

Tutti in maschera, o quasi. Dal rito al teatro, la «finzione» della maschera consegna al tema dell’identità di sé l’immagine di un essere «altro», di sé come un altro, un’immagine piena di ambiguità. L’ambiguità della metafora rituale o teatrale dell’immagine di sé sembra contenere l’espressione di un conflitto, di una contesa, che non investe solo la scena pratica della nostra vita sociale, ma anche quella della nostra vita interiore. Segnala la differenza, lo scarto drammatico di un vissuto che c’è tra il volto e la maschera.

Ma se la maschera coincidesse con il volto? Anzi, se il volto fosse l’insieme di più maschere? E magari neppure “visibili” alla consapevolezza di sé?

(1, continua)

2. …la maschera da liberare

Nella messa in scena sociale della nostra vita, la maschera può rinviare al massimo della sincerità, quando si ‘strappa la maschera’ per svelare una verità di sé, della persona, o al massimo della simulazione, quando si ‘indossa una maschera’ per occultare o, al contrario, esibire qualcosa di sé proprio all’interno di quel «gioco» sociale.

Difficile, nell’un caso o nell’altro, sottrarsi all’ambiguità del “recitare” o dell’”inscenare”, nella “messa in scena” della propria vita come rappresentazione sociale.

Come “liberare” allora la maschera entro il gioco dei riflessi sociali della nostra esistenza? Marzia Scarteddu dice che è possibile. Si tratta di fare un lavoro «artigianale» proprio su quel territorio, denso di emozioni e di pensieri, e di storie, che è il nostro volto.

(2, fine)

3. Postilla – Contaminazioni. Un metodo per imparare

Un metodo di lavoro, quello di Marzia Scardeddu, che risulta da un processo di contaminazioni. Le più diverse. Dall’indagine sui terremoti e le frane, attraverso le pratiche di formatori, psicologi, e ancora esperti della comunicazione, fino al lavoro artigianale del fabbro, della lavorazione del ferro.

Un lavoro “sporco” di sperimentazione. Un metodo aperto, soprattutto, perché si impara dagli stessi cui si insegna.

(3, fine)