In arrivo / Cena Nº109 - Martedì 28 Ottobre 2025

Com’era bella la musica di una volta

con Jacopo Tomatis

Se c’è una cosa che la storia della popular music ci insegna è che i valori estetici, esattamente come i generi musicali, mutano nel tempo e con il susseguirsi delle generazioni. La storia del gusto procede in un continuo ciclo di trasgressione delle convenzioni della stagione precedente e di riassorbimento, di normalizzazione di queste trasgressioni. È facile pronosticare che una musica che oggi appare a molti così dannatamente «brutta» – perché contraddice le regole della morale corrente, o perché usa l’Auto-Tune – domani sembrerà molto più accettabile.

Oggi, c’è però, forse, una novità. Il sentimento imperante della cultura pop degli ultimi anni sembra essere quello di una «retromania» inarrestabile. La percezione che la musica di una volta fosse meglio di quella di oggi è molto diffusa. L’epoca contemporanea più di ogni altra è segnata dalla presenza del passato: è normale, anche per i più giovani e le più giovani, ascoltare e apprezzare musica di molti anni fa, che confrontata con la produzione odierna sembra spiccare per originalità e qualità artistica.

La nostalgia che aveva caratterizzato l’epoca postmoderna, nel nuovo millennio ha lasciato il posto a una contemporaneità in cui vige l’ossessione per il passato, in cui la «spinta dell’oggi» sembra indebolirsi di anno in anno. «Invece di esprimere sé stessi», scrive il primo teorico del fenomeno Simon Reynolds, gli anni «duemila preferivano offrire un concentrato di tutti i decenni precedenti: una simultaneità della cronologia pop che abolisce la storia». In tempi ancora più vicini a noi, Mark Fisher – uno dei più lucidi commentatori della popular culture contemporanea – ha dato una lettura più politica di questa incapacità di immaginare il futuro, collocandola nel contesto di un capitalismo contemporaneo che si è ormai configurato come unico orizzonte possibile della vita.

Se però bisogna riconoscere che il rifugiarsi nel passato, e l’idea che “prima era meglio”, sono una costante di molte epoche e molte culture, altrettanto bisogna ammettere che non c’è mai stata un’epoca in cui la produzione culturale è stata così ricca come la nostra.

Insieme a Jacopo Tomatis*, la conversazione a tavola prenderà avvio da una semplice domanda: è davvero meglio la bella canzone di una volta?, per poi proseguire ad esplorare un’altra ipotesi: non dovremmo smettere di criticare quello che non si capisce, e imparare invece ad ascoltare con orecchie diverse il suono – e, dunque, il mondo – in cui viviamo?

* Jacopo Tomatis è musicologo, musicista e giornalista musicale. È ricercatore all’Università di Torino, dove insegna Popular music, Etnomusicologia e altre materie musicali. Si occupa di canzone italiana, del rapporto tra musica e media e di musica pop in generale.  Ha pubblicato Storia culturale della canzone italiana (il Saggiatore, 2019, Feltrinelli 2021), Nuovo Canzoniere Italiano’s Bella ciao (nella collana 33 1/3 di Bloomsbury, 2023) e Bella ciao. Una canzone, uno spettacolo, un disco (il Saggiatore, 2024). Al momento sta svolgendo un progetto di ricerca sulla produzione di dischi politici in Italia. Collabora regolarmente con il giornale della musica e La Domenica del Sole 24 Ore, ed è parte del progetto Lastanzadigreta, con cui nel 2017 ha vinto una Targa Tenco per il miglior album d’esordio.

Immagine di copertina: Da Sfera Ebbasta – $€ Loading…

1. “Una volta era meglio”: ma rispetto a quale musica di oggi?

“Una volta era meglio”, per Jacopo Tomatis, è un luogo comune nella storia culturale della canzone italiana. Ogni epoca tende a idealizzare la musica del passato: già dagli anni in cui si comincia a costruire l’idea di canzone italiana, alla nascita del Festival di Sanremo, il discorso nostalgico tende a risalire all’epoca fascista e, ancora più indietro, alla canzone napoletana.

Quella della nostalgia del passato è una costruzione retorica. Ma, oltre a ciò, c’è un elemento autobiografico, esistenziale per cui la musica che ci sembra “più bella” non è quella di oggi: c’è una fase della vita, che è l’età dell’adolescenza, in cui si ascolta più musica e si ha più tempo da dedicare all’ascolto musicale con una ricettività e un’intensità emotiva che non sarà più eguagliata nell’età successiva.

Ma, nell’oggi, rispetto a quale musica si esercita l’ascolto? In effetti, lo stesso ascolto musicale contemporaneo è dominato dalla tendenza alla “retromania” – concetto elaborato da Simon Reynolds – , una dinamica culturale che si esprime nella tendenza ad ascoltare e a usare sonorità vintage, che è forse il segno della “crisi del futuro” di cui parlava Mark Fisher. In ogni caso, è una tendenza sistemica che ha a che vedere con la logica economica di mercato: le piattaforme digitali, come Spotify, orientano l’ascolto verso il “catalogo” (musica più vecchia di tre anni), cioè la musica di ieri, perché più redditizia di quella recente.

Tuttavia, la scena musicale globale, segnata da un’apparente saturazione estetica, è in continua evoluzione – dalla trap alla drill, dal reggaeton alle sonorità afro-elettroniche. Non si tratta di stabilire se la musica di oggi  sia “peggiore” o “migliore” di quella di ieri. Il problema, semmai, è riconoscere ciò che vale in rapporto a tutta la musica – che poi si riduce tutto a un concetto, quello di competenza – per saperla fare, ascoltare, suonare: per entrare in questi nuovi mondi sonori occorre costruire nuove competenze.

(1, continua)

2. Perché ci piace ciò che ci piace? La scelta musicale e i mutamenti culturali

Perché ci piace ciò che ci piace? Una domanda fondamentale, per Jacopo Tomatis, per riflettere sul mutamento dei criteri del gusto musicale. Che cosa determina la nostra scelta musicale? La musica agisce sulla dotazione biologica e psicologica della nostra vita, e sulla nostra memoria biografica. È l’impatto sensoriale ed emozionale della musica, il suo potere di attivare aree del cervello legate al piacere. Ma il gusto musicale è filtrato dalla nostra identità antropologica di «esseri che stanno dentro a una cultura», dalla formazione di codici di genere, di generazione e di classe (di “distinzione sociale”).

Su quali basi diciamo che una musica è “bella” o “brutta”? Da critico musicale, Jacopo Tomatis riconosce che è un esercizio retorico l’idea di legittimare l’ascolto attraverso criteri di valore definiti: perché alla fine risultano schemi ideologici ricorrenti riconducibile tutti al tema dell’“autenticità” autoriale – quella “romantica” dell’unicità personale, quella che “sta dentro alla tradizione”, quella modernista (di ciò che è nuovo, non derivativo) o quella anti-commerciale.

Oggi queste categorie si sono indebolite: le nuove generazioni ascoltano, senza le vecchie classificazioni tra musica d’autore e commerciale, tra “musica di ieri” e “musica di oggi”. È cambiato anche il contesto dell’ascolto, senza più  mediatori culturali, dalla rivista specialistica alla trasmissione radiofonica dedicata, la scelta musicale è diventata più libera, ma anche più uniforme, meno aperta alla scoperta di prodotti musicali eccentrici.

In questo scenario, Jacopo Tomatis si riconosce in un passaggio personale e generazionale: da ascoltatore giudicante a osservatore che interroga, più che definire, il senso mutevole del piacere musicale.

(2, continua)