In arrivo / Cena Nº108 - Mercoledì 10 Settembre 2025

Perché il capitalismo ci porta sempre alla guerra mondiale?

con Maurizio Lazzarato

La guerra è tornata con grande forza nel presente. In realtà, non è mai scomparsa. Nell’ipotesi di Maurizio Lazzarato, la guerra non è un’eccezione, un’anomalia del capitalismo, ma una sua condizione permanente di funzionamento. La guerra non è solo quella dichiarata: è anche economica, sociale, razziale, mediatica. E il capitalismo le intreccia tutte.

Ogni fase di sviluppo capitalistico si è accompagnata a guerre: contro altri Stati, contro i popoli colonizzati, contro le classi subalterne. Le diverse modalità di governance del capitalismo – fascista, populista, oligarchica, dittatoriale, neoliberale – sono infatti facce della stessa medaglia. E ogni volta che il sistema entra in crisi, non trova soluzioni interne, ma si rigenera attraverso distruzione e violenza. È accaduto con la Prima e la Seconda guerra mondiale, oggi accade con la guerra “diffusa”: Ucraina, Palestina, competizione globale, militarizzazione delle società. Ogni grande ristrutturazione del sistema è una forma di guerra mondiale, anche se non sempre la chiamiamo così.

Il capitalismo è diventato, dalla fine del XIX secolo, imperialismo. L’imperialismo degli Usa è un imperialismo più sofisticato, non più territoriale, ma monetario e finanziario, un imperialismo del dollaro, che è diventato il cardine dell’economia internazionale. Un’economia, nella sostanza, predatoria: con questo meccanismo gli Usa si sono appropriati gratuitamente di una parte della ricchezza mondiale. La crisi di questo sistema, e non il neoliberalismo, è la causa principale della guerra in corso. È difficile non vedere cosa sta succedendo oggi. Violenza, inganno, oppressione, predazione si sviluppano apertamente, senza maschere, ed è difficile riconoscere un ordine mondiale, regolato dalle sole leggi del processo economico, nell’intreccio tra violenza economica e brutalità politica.

Il capitalismo è guerra, nient’altro oggi. La guerra non è la continuazione della politica, ma coesiste con la politica e con la produzione. Il capitalismo ha bisogno di creare nemici, di escludere, di disciplinare. Lo fa dentro e fuori: colonizza, reprime, precarizza. Non produce solo merci, ma anche conflitto, paura e comando. Ecco perché parlare di “pace nel capitalismo” è un’illusione.

In questo quadro brutale di crisi, insieme a Maurizio Lazzarato*, proveremo a indagare le possibilità di una rottura politica, la condizione di una vera alternativa, che non è solo economica: è rompere la macchina bellica del capitale.

* Maurizio Lazzarato è docente sociologo e filosofo, vive e lavora a Parigi dove svolge attività di ricerca sulle trasformazioni del lavoro e le nuove forme di movimenti sociali. Tra le sue pubblicazioni con DeriveApprodi: La fabbrica dell’uomo indebitato (2012), Il governo dell’uomo indebitato (2013), Il capitalismo odia tutti (2019), Guerra o rivoluzione (2022), Guerra e moneta (2023); per Ombre Corte: Il governo delle disuguaglianze (2013), Segni e macchine (2019). Il suo ultimo lavoro è: Guerra civile mondiale? (DeriveApprodi, 2024)

Immagine di copertina: La scritta “Capitalismo = guerra” su un muro di Bergen, in Norvegia. Foto di Jill

1. Non si può pensare il capitalismo senza la guerra

È ancora sostenibile la tesi liberale di Benjamin Constant (e già di Voltaire) secondo cui in epoca moderna la diffusione dei principi dell’economia di scambio e del commercio avrebbe potuto sostituire la permanente realtà storica della guerra? Per Maurizio Lazzarato è vero il contrario. Alla base del capitalismo prima di tutto c’è la violenza. Il capitalismo è quel processo la cui formazione si basa sulla violenza, su nuovi rapporti di forza – in breve, di espropriazione – per affermarsi come sistema di produzione e come mercato mondiale. È ciò che Karl Marx definiva “accumulazione originaria” del capitalismo.

Questa configurazione storica non è un evento da confinare al passato. Per Maurizio Lazzarato, è una forma permanente di fondazione, che si riattiva ad ogni transizione storica del capitalismo. Fin dalle sue origini, il modo di produzione capitalista ha bisogno di uno strumento politico, lo Stato-Nazione, per trasformare la violenza – coloniale, schiavista, patriarcale – in diritto, la guerra in ordine economico e sociale, in divisione tra chi comanda e chi obbedisce.

Dal ‘900, a partire dalla stretta interdipendenza tra potere politico e industria militare, ogni nuova fase di ristrutturazione capitalistica riapre la scena della forza: tra le due guerre mondiali, i golpe neoliberali in Sud America, le crisi finanziarie (del dollaro) e le guerre economiche contemporanee – tutte tappe, per Maurizio Lazzarato, di una stessa «guerra civile mondiale». La violenza extra-economica, politico-militare, della guerra diviene sempre più il dispositivo strategico di potere attraverso cui si impone, a livello mondiale, l’egemonia di un nuovo ordine economico, di un nuovo modello di sviluppo – oggi, a dominanza statunitense.

In questa fase di crisi del capitalismo: è ancora pensabile una sovranità economica che non coincida con la gestione della violenza, della guerra? E soprattutto: possiamo ancora parlare di capitalismo, la cui sopravvivenza sembra dipendere da una “rendita feudale”, garantita soltanto dal potere militare e politico, extra-economico degli Stati Uniti, in sostituzione dei meccanismi di accumulazione basati sul mercato?

(1, continua)

2. Dalle guerre imperialiste del XX sec. al genocidio oggi: e la rivoluzione?

Com’è stato possibile pensare, negli anni ’70, di essere usciti dalla matrice guerra-capitale della prima metà del XX secolo? Per Maurizio Lazzarato, è stato un errore. «Il capitalismo non è solo un ciclo di accumulazione economica, è anche quello che io definisco un ciclo strategico: il ciclo strategico è il ciclo della guerra», che è tale perché precede, accompagna e segue il ciclo economico. Là dove l’economia esaurisce la sua fase espansiva, la forza extra-economica è fondamentale per riconfigurare un nuovo “ordine”, una nuova fase di accumulazione capitalistica.

Nel XX secolo le rivoluzioni del Sud del mondo – dalla Russia alla Cina, dal Vietnam all’Algeria, all’America Latina –, hanno rappresentato il tentativo più radicale di trasformare la guerra capitalista in lotta di classe, in guerra civile rivoluzionaria. È la lezione di Lenin, Mao, Giap: la guerra è il terreno politico del conflitto capitalistico, perché non esiste capitale senza Stato, né Stato senza guerra.

Una lettura dell’attuale crisi della globalizzazione prigioniera di un certo economicismo, è per Maurizio Lazzarato illusoria: interpreta il conflitto come effetto della crisi economica, e non riconoscere che la forza extra-economica – la guerra, la coercizione, la violenza di Stato – è parte costitutiva del capitalismo stesso. È la guerra a fondare l’accumulazione, non il contrario.

In questa fase del ciclo strategico, iniziato nel 2008, la macchina Stato-Capitale, a dominanza statunitense, continua a condurre alla guerra aperta, e reca con sé una grande novità: la gestione diretta dell’economia del genocidio, e senza alcuno scrupolo. Un passaggio che configura il capitalismo attuale come “capitalismo fascista” –  una definizione di Paul Samuelson, che, a partire dall’“esperimento” neoliberale dei Chicago Boys del golpe cileno, è un paradigma per l’economia in generale: un «capitalismo imposto» attraverso la forza, un capitalismo fascista senza più la necessità di ricorrere al regime politico dei fascismi storici, integrato nel funzionamento stesso delle democrazie e del mercato mondiale.

Ma, allora, che ne è della rivoluzione? È ancora possibile porsi il problema di trasformare il ciclo strategico della guerra, della violenza politica e militare, in rivoluzione?

(2, continua)

3. La frattura Occidente e Sud del mondo, tra rivoluzioni e nuovo ordine mondiale?

Dalla conquista dell’America fino al XX secolo, il sistema mondiale dell’economia capitalista si è costruito sul rapporto di sfruttamento del Nord con il Sud del mondo, un asse coloniale che ha alimentato la ricchezza dell’Occidente. Un processo in corso, dall’esito ancora aperto e instabile. E ciò a causa della novità introdotta dalle rivoluzioni del Novecento che, se pur fallite sul piano politico, hanno consentito il sedimentarsi di una nuova forza economica del Sud globale – la crescita della Cina e del Sud-Est asiatico, l’autonomia dei BRICS. Da qui l’emergere del mondo multipolare di oggi.

Il dominio del capitalismo sul mercato globale non è mai venuto meno. Per averne conferma, basta assumere, per Maurizio Lazzarato, una prospettiva storica su scala mondiale, non eurocentrica. Mentre, infatti, in Europa il periodo dei “trenta gloriosi” (1945-1975) – una fase di crescita economica e di progresso sociale – è stato un periodo di pace, nel Sud del mondo, è conciso con la violenza capitalistica la più feroce, quella delle guerre coloniali in Indocina (Vietnam), in Algeria, e delle ingerenze statunitensi in Africa e in America Latina.

In questa fase storica, la guerra – in varie forme, commerciale, finanziaria, militare – rimane il dispositivo centrale per la soluzione della crisi egemonica dell’Occidente. Il declino della centralità statunitense è segnato dal tentativo di riorganizzare su nuove basi le gerarchie dell’economia globale, che va dalla permanente ridefinizione dei dispositivi di controllo e di dipendenza all’impiego del terrore sistemico: la sconfitta militare in Ucraina e la complicità nel genocidio israeliano in Palestina.

Da questa frattura storica, quali possibilità per una nuova teoria rivoluzionaria?

(3, continua)

4. Guerra, economia e politica: per la critica della critica disarmata

Di fronte alla realtà della guerra, il pensiero critico occidentale – compreso il marxismo – è come in ritardo. Non riesce a cogliere la guerra come matrice strategica, che sta cioè alla base dell’integrazione tra economia e politica, del capitalismo contemporaneo. L’intuizione di Michel Foucault, che negli anni Settanta declinava la “guerra civile” come modo di governo della società, è rimasta senza seguito, abbandonata a favore di una teoria della diffusione orizzontale dei dispositivi di controllo – della governamentalità biopolitica.

Ma cosa resta di una teoria politica che dimentica la guerra? Si finisce per disarmare la critica, per abbandonare il terreno della strategia politica. Al contrario, per Maurizio Lazzarato, «ragionare in termini di guerra politica» significa non dimenticare che «per fare politica bisogna avere un nemico: senza nemico non c’è politica, non c’è soggetto politico». E, come ricorda Frantz Fanon, senza nemico di classe e senza uno scopo, la lotta si rovescia in “guerra tra poveri”, in antagonismo tra oppressi.

Forse è vero. Oggi non c’è più un nemico di classe riconoscibile. E tuttavia, il capitalismo a trazione statunitense mantiene una visione strategica della guerra economica. I diversi centri di potere, dal capitale industriale alla finanza globale, dallo Stato all’apparato militare (Pentagono), fino ai centri monetari internazionali, operano, attraverso la mediazione di interessi differenti, in vista di un unico obiettivo: trasformare l’economia in una guerra civile permanente contro “i proletari di tutto il mondo”. Come aveva previsto Paul Sweezy negli anni ’70, la finanziarizzazione dell’economia fondata sul debito – sull’indebitamento di Stati, imprese e individui – rappresenta la forma più avanzata di questa strategia: una macchina di dominio sulla produzione della ricchezza reale, finalizzata solo ad alimentare la speculazione monetaria. Una macchina, che, impiegata oggi al fine stesso di un’economia di guerra, non fa che svelare il potere distruttivo dell’economia capitalista.

Il pensiero critico ha smesso di pensare “il livello dello scontro” con il potere: le teorie dell’“esodo” (Paolo Virno), delle “vie di fuga” (Gilles Deleuze e Félix Guattari) o della “diserzione” (Franco “Bifo” Berardi) non sono alternative strategiche, non riescono a pensare il rapporto specifico con il potere del capitale, e la sua dinamica di centralizzazione. Potere che, per Maurizio Lazzarato, «non è il tutto. Il tutto è il confronto… il confrontarsi… con quello che è il potere, quindi con la totalità divisa – divisa perché il conflitto è strutturale».

Senza un pensiero della centralità dello scontro con il potere del capitale – come, secondo Carl Schmitt, lo si trova in Lenin, Mao e Giap, lettori di Clausewitz – è impossibile per la molteplicità diffusa dei soggetti politici esistenti, dal movimento operaio a quello femminista, dal movimento antirazziale a quello ecologico, restituire alla critica uno spazio politico, dove la libertà si misura nel conflitto.

(4, continua)

5. Filosofia della differenza e nuove soggettività: ma per quale funzione politica?

Insieme alla crisi del movimento operaio, gli anni ‘70 hanno lasciato un nodo politico irrisolto. La filosofia postmoderna e foucaultiana, erede della lettura di Friedrich Nietzsche, all’idea di “lotta di classe” e di “rivoluzione” ha presto sostituito una politica delle differenze: l’emergere di nuove soggettività, di nuovi movimenti – femminista, antirazzista, ecologista –, ognuno portatore di una propria esperienza, di una propria lotta identitaria.

Ma – ed è qui che sta il nodo irrisolto – la molteplicità delle lotte, espressione di forme reali di liberazione, non riesce ad assumere una funzione politica collettiva che sia davvero antagonista. Per Maurizio Lazzarato, il problema non risiede tanto nel riconoscere la molteplicità dei soggetti emergenti da relazioni di potere diffuse e orizzontali, quanto nel capire che si è smarrita una visione strategica del conflitto, cioè la chiave per comprendere come funziona davvero il dominio capitalistico. (Vedere anche video successivo – Cena N° 108: 7. La paura del «due» o dell’inattualità di una conflittualità «armata»?, qui)

Il punto chiave è la verticalità dei rapporti di forza: è questa che fa del capitalismo un processo totalizzante di sfruttamento: capace di organizzare le differenze sociali – unificandole e allo stesso tempo separandole – per trasformarle in disuguaglianze. Ma mentre la violenza sistemica del capitalismo – una violenza propriamente “politica” – tende a rendersi invisibile, l’individualizzazione neoliberale – che riduce gli individui a soggetti isolati, “atomizzati” – svuota la politica, rendendola incapace di trasformare le molteplici istanze di emancipazione in una forza comune.

La questione è allora per Maurizio Lazzarato: come pensare una politica che tenga insieme la molteplicità delle differenze, senza annullarle, e la centralità del conflitto strutturale che attraversa la «totalità divisa» (e divisiva) del capitale?

(5, continua)

6. La paura del «due» o l’inattualità di un pensiero del conflitto come «guerra»?

Per Maurizio Lazzarato, il pensiero critico contemporaneo vive della paura del «due», della difficoltà, come per una sorta di tabù politico e culturale, di pensare il conflitto, il «dualismo tra il potere in quanto totalità e l’opposizione a questa totalità stessa», insomma, la dimensione strategica della politica. Dagli anni Settanta in poi, il rifiuto della critica postmoderna di una visione dialettica della storia – intesa come superamento della “contraddizione”, come “riconciliazione” – ha reso impensabile la guerra come momento di sintesi del conflitto di classe, dell’essere «contro il capitale come sistema globale».

La tradizione rivoluzionaria (da Lenin a Mao) non ha mai disconosciuto che la società è una «totalità divisa», una divisione, che ancor prima che economica è politica, è costruzione di rapporti di forza, di una frattura verticale irriducibile della realtà sociale. Di fatto, nella società capitalistica, la centralizzazione del potere – economico, politico e militare – è la strategia attraverso cui continua a realizzarsi l’espropriazione economica: concentrazione estrema della ricchezza, da una parte, ed estrema miseria e precarietà, dall’altra.

Il paradigma della guerra è allora diventato inattuale? In La società contro lo Stato, per l’antropologo francese Pierre Clastres, nella sua analisi delle società “selvagge”, la guerra è il dispositivo che impedisce la separazione del potere politico dalla società, il suo farsi Stato. In queste società, il conflitto richiede un momento strategico – l’affidamento temporaneo a qualcuno della gestione della guerra. Senza una «soggettivazione politica», capace di dare forma comune al conflitto, non c’è strategia politica.

Oggi l’idea di opposizione – il «due» – sopravvive solo come opposizione “locale”, e la lotta si riduce a questione identitaria, in una continua frammentazione orizzontale dei soggetti antagonisti – donna/uomo, bianco/nero, natura/cultura. Da questa prospettiva, «l’esistenza della “molteplicità”» dei soggetti, per Maurizio Lazzarato, «resterà una molteplicità di servi», destinata alla sconfitta.

Ripensare il problema del «due» – non tanto come metafora bellica, ma come forma organizzata del conflitto – significa allora riconosce che il potere, prima della divisione tra sfruttatori e sfruttati, organizza la gerarchia tra chi comanda e chi obbedisce; significa riconoscere che è questa frattura politica originaria a trasformare la subordinazione in appartenenza funzionale – di classe – alla riproduzione capitalistica della società. E, questo, è il nodo inattuale, ma decisivo, la vera sfida teorica e politica, per riattualizzare un pensiero critico del presente.

(6, continua)

7. Crisi della soggettività politica: tra individualismo neoliberale e militarizzazione dell’Occidente

Che cosa resta della soggettività politica, oggi in crisi? In un tempo in cui l’ideologia neoliberista trasforma la progettualità di vita – dei giovani, soprattutto – in “impresa di sé”, in una dinamica competitiva di promozione personale, come andare oltre la dimensione dell’interesse individuale? A partire da qui – una condizione di alienazione, non più solo economica, ma esistenziale e sociale e, insomma, di depressione – è possibile la costruzione di una diversa soggettività politica, una diversa visione di mondo?

Su quale base fondare allora un “universalismo” della soggettività politica? Può ancora bastare ricondurre la soggettività individuale all’interesse economico – in una versione economicista della tradizione marxista – nell’ottica della contraddizione tra capitale e lavoro, per una comprensione adeguata del conflitto politico? O occorre un approccio alla soggettività umana in grado di integrare altre categorie di analisi, relative a una molteplicità di processi e di esperienze che ne plasmano l’identità e la storia?

Per Maurizio Lazzarato, il problema fondamentale resta il concetto di rivoluzione, il problema della rottura con il capitalismo, perché, come rileva Frantz Fanon nel contesto anti-imperialista della guerra algerina, la rivoluzione è anche un processo di trasformazione psichica e simbolica, un processo di soggettivazione collettiva. È nella lotta, nella possibilità di nominare il nemico, che è possibile elaborare la costruzione di una progettualità comune.

Ripensare la soggettività politica, oggi, significa allora interrogarsi in maniera radicale «su cosa significa vivere nell’attuale regime di guerra», un regime di militarizzazione dell’Occidente, promosso dalle classi dirigenti come orizzonte futuro della società. Ma è possibile mettere “all’ordine del giorno” una rivoluzione, anche solo teorica, per comprendere la pertinenza del tema della guerra come matrice strategica del capitalismo? E a partire dalla consapevolezza che l’Occidente è solo una parte, e una piccola parte, del mondo?

(7, fine)

8. Perché il capitalismo ci porta sempre alla guerra mondiale? – Momento conviviale 1

Sempre in guerra: il modello americano del capitalismo

Maurizio Lazzarato: – Gli Stati Uniti sono in guerra da 1945. Sono in guerra ogni anno. Loro sono in guerra sempre. C’è stato un anno in cui non sono stati in guerra. Per cui dal 1945 il popolo americano è un popolo in guerra. Quindi anche nei periodi di pace loro sono in guerra comunque. Per cogliere bene questo funzionamento bisogna vedere il centro del capitalismo. Perché noi siamo in una posizione di subordinati. Cioè, in realtà, il modello è il modello degli Stati Uniti. Perché, a noi, ce l’hanno vietato. Certe cose sono vietate, perché noi abbiamo perso la guerra. Noi, la Germania. L’Europa ha perso la guerra. Quindi per noi certe cose sono vietate.
Matteo Frau: – Perché noi non riusciamo a guardare il mondo come lo guarda il Sud del mondo?

9. Perché il capitalismo ci porta sempre alla guerra mondiale? – Momento conviviale 2

Le rivoluzioni non sono all’infinito, prima o poi finiscono

Matteo Frau: – Domanda, così a caso: la rivoluzione francese che cos’è? L’unico esempio di rivoluzione invece di successo al centro?
Maurizio Lazzarato: – No, la Rivoluzione francese diventa subito Impero, Napoleone. Poi Napoleone viene sconfitto e diventa reazione, la Rivoluzione francese. La Rivoluzione francese poi è recuperata dal proletariato nel ‘30, nel ‘48, nel ’71, cioè, si trasferisce, la rivoluzione. […] La Rivoluzione francese finisce. Ma come è finita la Rivoluzione russa, come è finita la Rivoluzione cinese. Sono finite. Le rivoluzioni non sono all’infinito. Hanno un certo periodo, poi finiscono. Però, hanno sedimentato comunque dei rapporti di forza. Il cambiamento Nord-Sud è fondamentale.

10. Perché il capitalismo ci porta sempre alla guerra mondiale? – Momento conviviale 3

Il problema non è più la presa del potere…

Francesca Tisi: – Il concetto di rivoluzione – che è ovvio che non si può più fare con l’assalto al Palazzo d’Inverno – è difficile, cioè è arduo adesso il compito. Non so come si possa pensare alla rivoluzione. […]
Maurizio Lazzarato: – Sì, ma, per esempio, negli anni ’70 abbiamo detto: il problema non è più la presa del potere. Ok! Però poi non abbiamo sostituito niente a questa cosa qui. Una volta che abbiamo fatto questa critica qua, non abbiamo trovato niente per poter stabilire dei rapporti di forza.