“Io non lo voglio questo mondo!”. E, appunto, senz’altra argomentazione o giustificazione, rivendicare così il rifiuto della presenza dei super-ricchi, di ciò che la ricchezza estrema rappresenta: un mondo che per il suo stesso sistema di produzione – «un treno senza conducente lanciato a folle velocità verso il futuro» – è destinato all’estinzione.
Dire la propria su questo mondo non basta? Forse, no. Perché anche la critica più radicale è sempre a rischio di trasformarsi in brand – in una maglietta con scritto “Odio di classe”. La capacità plastica di mercificazione di tutto – che è, appunto, ciò che il sistema capitalistico sa fare meglio – è totalizzante, è in grado di depotenziare qualsiasi istanza trasformativa. Ed è questo uno dei motivi per cui è così difficile immaginare la sua fine, se non come fine del mondo.
Aprire spazi di socialità, sulla traccia di pensatori anarchici come Murray Bookchin, del suo “municipalismo libertario”, è un’opzione: si tratta di attivare una prassi concreta per costruire qui e ora forme alternative di relazione sociale, capaci di soddisfare i bisogni sottratti alla logica del mercato. Ma la messa a terra di un sogno – dell’utopia di “un altro mondo”, che da sempre attraversa il tempo di qualche generazione, più spesso tradotta a misura di piccole comunità rurali – al di là della sua concrezione, non è mai bastata a cambiare il mondo. E però resta come esercizio di immaginazione politica.
Se, dunque, la persistenza del capitalismo è inaggirabile, anche perché nella sua capacità di creare disuguaglianza è munifico, equo, aperto potenzialmente, e contraddittoriamente, a istanze universalistiche di inclusione, la domanda vera da farsi è allora un’altra: «Come abitare il tempo da qui all’estinzione?». In altri termini, si tratta di «capire cosa rende un individuo felice, migliore. E, se la risposta è buona, condividerla con gli altri». Il tempo dell’umano di mettere in essere cose straordinarie, accanto alle nefandezze più atroci, non è ancora estinto, non è finito.
Alla base, per Giovanni Semi, c’è una domanda «che non ci facciamo», con cui però vale la pena confrontarsi: «Qual è la quota di ricchezza che riteniamo giusta per noi? Di quanto abbiamo bisogno noi, non i super-ricchi, noi, per “sentirci ricchi”, per poter vivere una vita buona, bella, felice anche?». È una riflessione, la cui chiave interpretativa non è di necessità individualista. Perché la possibilità stessa di decidere su ciò che significa “stare bene” – una soglia economica, una quantità di beni o di relazioni o di tempo o di progetti – può diventare la base politica comune per un’azione collettiva: ad esempio, per avere una giornata lavorativa che non superi le quattro ore. Un buon punto di partenza, per disinnescare la rincorsa senza fine alla ricchezza materiale.
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