Insieme alla crisi del movimento operaio, gli anni ‘70 hanno lasciato un nodo politico irrisolto. La filosofia postmoderna e foucaultiana, erede della lettura di Friedrich Nietzsche, all’idea di “lotta di classe” e di “rivoluzione” ha presto sostituito una politica delle differenze: l’emergere di nuove soggettività, di nuovi movimenti – femminista, antirazzista, ecologista –, ognuno portatore di una propria esperienza, di una propria lotta identitaria.
Ma – ed è qui che sta il nodo irrisolto – la molteplicità delle lotte, espressione di forme reali di liberazione, non riesce ad assumere una funzione politica collettiva che sia davvero antagonista. Per Maurizio Lazzarato, il problema non risiede tanto nel riconoscere la molteplicità dei soggetti emergenti da relazioni di potere diffuse e orizzontali, quanto nel capire che si è smarrita una visione strategica del conflitto, cioè la chiave per comprendere come funziona davvero il dominio capitalistico. (Vedere anche video successivo – Cena N° 108: 7. La paura del «due» o dell’inattualità di una conflittualità «armata»?, qui)
Il punto chiave è la verticalità dei rapporti di forza: è questa che fa del capitalismo un processo totalizzante di sfruttamento: capace di organizzare le differenze sociali – unificandole e allo stesso tempo separandole – per trasformarle in disuguaglianze. Ma mentre la violenza sistemica del capitalismo – una violenza propriamente “politica” – tende a rendersi invisibile, l’individualizzazione neoliberale – che riduce gli individui a soggetti isolati, “atomizzati” – svuota la politica, rendendola incapace di trasformare le molteplici istanze di emancipazione in una forza comune.
La questione è allora per Maurizio Lazzarato: come pensare una politica che tenga insieme la molteplicità delle differenze, senza annullarle, e la centralità del conflitto strutturale che attraversa la «totalità divisa» (e divisiva) del capitale?
(5, continua)