Di fronte alla realtà della guerra, il pensiero critico occidentale – compreso il marxismo – è come in ritardo. Non riesce a cogliere la guerra come matrice strategica, che sta cioè alla base dell’integrazione tra economia e politica, del capitalismo contemporaneo. L’intuizione di Michel Foucault, che negli anni Settanta declinava la “guerra civile” come modo di governo della società, è rimasta senza seguito, abbandonata a favore di una teoria della diffusione orizzontale dei dispositivi di controllo – della governamentalità biopolitica.
Ma cosa resta di una teoria politica che dimentica la guerra? Si finisce per disarmare la critica, per abbandonare il terreno della strategia politica. Al contrario, per Maurizio Lazzarato, «ragionare in termini di guerra politica» significa non dimenticare che «per fare politica bisogna avere un nemico: senza nemico non c’è politica, non c’è soggetto politico». E, come ricorda Frantz Fanon, senza nemico di classe e senza uno scopo, la lotta si rovescia in “guerra tra poveri”, in antagonismo tra oppressi.
Forse è vero. Oggi non c’è più un nemico di classe riconoscibile. E tuttavia, il capitalismo a trazione statunitense mantiene una visione strategica della guerra economica. I diversi centri di potere, dal capitale industriale alla finanza globale, dallo Stato all’apparato militare (Pentagono), fino ai centri monetari internazionali, operano, attraverso la mediazione di interessi differenti, in vista di un unico obiettivo: trasformare l’economia in una guerra civile permanente contro “i proletari di tutto il mondo”. Come aveva previsto Paul Sweezy negli anni ’70, la finanziarizzazione dell’economia fondata sul debito – sull’indebitamento di Stati, imprese e individui – rappresenta la forma più avanzata di questa strategia: una macchina di dominio sulla produzione della ricchezza reale, finalizzata solo ad alimentare la speculazione monetaria. Una macchina, che, impiegata oggi al fine stesso di un’economia di guerra, non fa che svelare il potere distruttivo dell’economia capitalista.
Il pensiero critico ha smesso di pensare “il livello dello scontro” con il potere: le teorie dell’“esodo” (Paolo Virno), delle “vie di fuga” (Gilles Deleuze e Félix Guattari) o della “diserzione” (Franco “Bifo” Berardi) non sono alternative strategiche, non riescono a pensare il rapporto specifico con il potere del capitale, e la sua dinamica di centralizzazione. Potere che, per Maurizio Lazzarato, «non è il tutto. Il tutto è il confronto… il confrontarsi… con quello che è il potere, quindi con la totalità divisa – divisa perché il conflitto è strutturale».
Senza un pensiero della centralità dello scontro con il potere del capitale – come, secondo Carl Schmitt, lo si trova in Lenin, Mao e Giap, lettori di Clausewitz – è impossibile per la molteplicità diffusa dei soggetti politici esistenti, dal movimento operaio a quello femminista, dal movimento antirazziale a quello ecologico, restituire alla critica uno spazio politico, dove la libertà si misura nel conflitto.
(4, continua)