L’aritmetica pitagorica ci consegna una visione del mondo – di ciò che esiste o, meglio, del principio stesso di ciò che esiste – intrinsecamente positiva, in quanto fondata sui numeri naturali, cioè sui “numeri interi positivi”. La sacra tetraktys pitagorica (il numero 10 raffigurato in una disposizione a triangolo equilatero di 1, 2, 3 e 4) è l’espressione simbolica di questa visione della realtà.
Il nostro sguardo – la nostra teoria – sulla realtà ha dunque a che fare con quello che c’è? Con quello che c’è nella nostra sensazione e percezione del mondo. Cosa succede però nel passaggio all’elaborazione (neuronale) della realtà nella nostra testa? Una buona causa, l’esistenza di questo problema, per cui si è spesa, e si spende, l’intera storia della filosofia.
Il compito di una teoria non è infatti solo quello di dire le cose come stanno, ma anche di dimostrare che stanno così. E questo desiderio di “indagine” è proprio ciò a cui si dedica la matematica pitagorica. La dimostrazione è la procedura in cui consiste il teorema per cui Pitagora è ricordato, e che varrà ancor più per la geometria di Euclide. Ma quale conseguenza ha avuto, e ancora oggi ha, la scoperta di Ippaso di Metaponto (530 a.C. circa – 450 a.C. circa) delle grandezze incommensurabili, una sorta di entità inconcepibile, indicibile, irrazionale (in greco alogon), tra il lato e la diagonale di un quadrato, sulla nostra comprensione della realtà? Una scoperta che risultò fatale per la vita di Ippaso.
Questa scoperta introduce uno scarto, una differenza: ciò che si sta cercando tramite il calcolo è qualcosa che sfugge al calcolo stesso, qualcosa di non numerabile, quale era per i Greci una grandezza incommensurabile. Questa strana entità che è priva di riferimento oggettuale, positivo, è il segno di un’incertezza radicale del nostro “confrontarci” con la realtà, il segno di un’implicazione dinamica del nostro stare al mondo – che vive nel presente di un passato e un futuro – con il mondo stesso.
Per Roberto Imperiale allora «il problema della misura è il problema che rende possibile trovare la bellezza nella straordinaria incertezza del mondo». E per capirlo basta prendere in mano un trifoglio. «La bellezza sta in questa drammatica esplorazione del mondo». Almeno, per riuscire a capire il mondo, ancor prima di poterlo cambiare.
(2, continua)