Per Maurizio Lazzarato, il pensiero critico contemporaneo vive della paura del «due», della difficoltà, come per una sorta di tabù politico e culturale, di pensare il conflitto, il «dualismo tra il potere in quanto totalità e l’opposizione a questa totalità stessa», insomma, la dimensione strategica della politica. Dagli anni Settanta in poi, il rifiuto della critica postmoderna di una visione dialettica della storia – intesa come superamento della “contraddizione”, come “riconciliazione” – ha reso impensabile la guerra come momento di sintesi del conflitto di classe, dell’essere «contro il capitale come sistema globale».
La tradizione rivoluzionaria (da Lenin a Mao) non ha mai disconosciuto che la società è una «totalità divisa», una divisione, che ancor prima che economica è politica, è costruzione di rapporti di forza, di una frattura verticale irriducibile della realtà sociale. Di fatto, nella società capitalistica, la centralizzazione del potere – economico, politico e militare – è la strategia attraverso cui continua a realizzarsi l’espropriazione economica: concentrazione estrema della ricchezza, da una parte, ed estrema miseria e precarietà, dall’altra.
Il paradigma della guerra è allora diventato inattuale? In La società contro lo Stato, per l’antropologo francese Pierre Clastres, nella sua analisi delle società “selvagge”, la guerra è il dispositivo che impedisce la separazione del potere politico dalla società, il suo farsi Stato. In queste società, il conflitto richiede un momento strategico – l’affidamento temporaneo a qualcuno della gestione della guerra. Senza una «soggettivazione politica», capace di dare forma comune al conflitto, non c’è strategia politica.
Oggi l’idea di opposizione – il «due» – sopravvive solo come opposizione “locale”, e la lotta si riduce a questione identitaria, in una continua frammentazione orizzontale dei soggetti antagonisti – donna/uomo, bianco/nero, natura/cultura. Da questa prospettiva, «l’esistenza della “molteplicità”» dei soggetti, per Maurizio Lazzarato, «resterà una molteplicità di servi», destinata alla sconfitta.
Ripensare il problema del «due» – non tanto come metafora bellica, ma come forma organizzata del conflitto – significa allora riconosce che il potere, prima della divisione tra sfruttatori e sfruttati, organizza la gerarchia tra chi comanda e chi obbedisce; significa riconoscere che è questa frattura politica originaria a trasformare la subordinazione in appartenenza funzionale – di classe – alla riproduzione capitalistica della società. E, questo, è il nodo inattuale, ma decisivo, la vera sfida teorica e politica, per riattualizzare un pensiero critico del presente.
(6, continua)