Perché «lavorare sull’immaginario»? Perché «ancora non siamo stati capaci – dice Giorgio Griziotti –, dal punto di vista razionale, di trovare una visione, una futuribilità, della giustizia climatica» e, più semplicemente, della crisi ecologica. E ancor più perché è in atto una totale occupazione dell’immaginario, tramite mediazione tecnologica, ad opera di un capitalismo – il neurocapitalismo – che, mentre ci alletta con i suoi dispositivi di cattura cognitiva ed esistenziale in una logica consumistica di messa a valore della vita, nella sua ossessione per la crescita illimitata, ci espone alla visione di un futuro – “che altri stanno immaginando per noi” – che si consuma nella sua stessa potenza autodistruttiva.
Di fronte al disastro ambientale incombente, di quale «nuova base teorica», da costruire, abbiamo allora bisogno? Per Giorgio Griziotti, serve un cambio di paradigma, una rivoluzione culturale. Senza però rinunciare alla dimensione materiale della lotta, alla centralità del conflitto sociale, occorre allargare il senso della “realtà”: occorre ricomprendere il conflitto di classe – e in genere il tema dell’oppressione delle classi subalterne – entro la più ampia dinamica di integrazione del vivente, entro il sistema interconnesso dell’“accadere” di Gaia.
A tutto ciò c’è però una problematica sottesa: la capacità del sistema capitalistico di assumere una natura dinamica e mutevole, di inglobare nella sua struttura la “fluidità”, una capacità di adattarsi e di evolversi nel tempo, e di “sussumere” a livello ideologico la messa in discussione dell’idea stessa di una verità, di una significazione della realtà, stabile e definita. In altre parole, se è vero che «il discorso sulla “lotta di classe” non funziona più», altrettanto per le nuove istanze di emancipazione – come le ”guerre culturali” sulle tematiche dei diversi regimi di oppressione di soggetti subalterni (per condizione di appartenenza di genere, orientamento sessuale, razzializzata, abilità psico-fisica, retroterra socio-economico o altro ancora) – c’è il rischio che esse possono essere neutralizzate, piegate a semplici rivendicazioni etico-culturali, in una logica di frammentazione, su base identitaria, di un possibile soggetto antagonista. (Vedi Cena N. 102, Guerre culturali e neoliberismo – con Mimmo Cangiano, qui o qui)
Insomma, la radicalità dell’incertezza, la perdita di centralità del nostro stare al mondo, con cui stiamo imparando a vivere, è il segno di una nostra implicazione dinamica con il mondo stesso. Ed è conforme, in un suo impiego forse non solo metaforico, al principio di indeterminazione di Heisenberg, della fisica quantistica, per cui la scoperta che essere implicati nella processualità delle connessioni del mondo significa indagare, disporsi ad «ascoltare le capacità del vivente», a «rientrare nel sistema vivente di Gaia», diviene la condizione per attivare un immaginario non più antropocentrico. Per un futuro diverso, perché ne va di un mondo il cui collasso è evitabile, a condizione di porre fine, questa sì auspicabile, alla dismisura prometeica degli attuali esiti della civilizzazione umana.
(2, continua)