Qual è il potere delle storie di sé, delle autobiografie?
Essere la verità di te di quel momento, una verità che cambia, in seguito, e che ti cambia. Una verità esistenziale, è «la palla che ti racconti», dice Fabio Scandura, ma «è una palla piena di significato», aggiunge Massimo Arvat. È l’interpretazione che dai al tuo vissuto oggi, ma – e la cosa è interessante – possiede un potere trasformativo, e può svolgere una funzione terapeutica.
Non importa se vera o falsa, basta che sia verosimile. Un’autobiografia soddisfa un libero criterio di unificazione, di organizzazione, un criterio di coerenza interna; e proprio perciò è utile a ricomporre la frammentazione della vita in un mondo fluido, mobile, soggetto a trasformazione continua, fin dentro gli accadimenti della storia.
A questo proposito, Massimo Arvat ci ricorda che la narrazione autobiografica è un metodo di cura, una modalità di guarigione. «È un lavoro che si fa sul linguaggio, sulla memoria e che agisce sulla biologia del cervello. Indipendentemente dal suo contenuto di verità, la narrazione ci aiuta a ricostruire un circuito di senso delle nostre vite». È un meccanismo di costruzione di senso. Produce una trasformazione del soggetto, serve a vivere, ad adattarsi alla quotidianità del mondo.
Ma se il mondo, così com’è, non va bene?
L’autobiografia è forse il tentativo di praticare una forma di resistenza o di guarigione. Un approccio terapeutico alla difficoltà di vivere. Lo è attraverso la sua stessa struttura. Una storia autobiografica, come per ogni racconto, si affida infatti alla finzione narrativa – quella del “viaggio” di un soggetto agente, delle sue peripezie, in una successione di prove, di un punto di svolta cruciale – per dare senso a una vita.
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