La riflessività della traduzione: una verità su di “noi”

È una domanda legittima chiedersi cosa ha detto veramente Platone o un antico autore? È possibile «rivivificare l’assoluto significato originario» delle parole di un testo antico? Ad esempio, del testo «μὴ εἰσενέγκῃς (eisenénkēis, lat.: inducas) ἡμᾶς εἰς πειρασμόν (peirasmon, lat.: temptationem)» nella preghiera del Padre nostro, che un filologo classicista potrebbe tradurre in italiano con: non ci mettere alla prova?

Per Gaetano Chiurazzi, la traduzione di una parola è la «sedimentazione» del suo significato, è la sua storia, e non è possibile ignorarla. Anzi, è la dimostrazione che il significato di una parola dipende dal contesto culturale e storico entro cui si evolve.

Allora, un’operazione di traduzione ci mette di fronte alla «svolta della riflessività»: nel processo di interpretazione delle parole di un “altro” autore – antico o attuale che sia – cosa stiamo dicendo di noi, del contesto culturale da cui la nostra esperienza del mondo assume significato? Si tratta, allora, di portare allo scoperto le premesse del nostro parlare, le premesse da cui facciamo affermazioni sulla realtà.

(6, continua)

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