L’arte va al mercato globale

Durante la cena, è venuto fuori che l’artista sembra godere di una posizione di privilegio sociale. È quello accordato alla sua «autonoma creatività», a quella spinta – una sorta di interno «furore sacro» – che obbliga l’artista a perseguire un’intensa attività espressiva. L’artista non deve far altro che rivolgersi all’interno, su sé stesso, a differenza di chiunque altro, la cui attività è rivolta all’esterno, verso la società.

È, in fondo, questo, un privilegio accordato alla soggettività, che è in eredità all’uomo moderno fin dall’epoca rinascimentale, in cui l’individualità dell’artista comincia a emergere nella società.

E, infatti, chi di noi, in qualche modo, non vorrebbe poter godere di questa prerogativa: che la nostra più vera identità stia dentro di noi, indipendentemente da come ci tratta la società? E, soprattutto, indipendentemente dalla necessità di guadagnarci da vivere?

Ciò vuol significare che «siamo tutti artisti»? Almeno, a condizione che sia possibile coltivare il nostro talento creativo. Appunto, non è così, ma ce ne rimane l’illusione.

Oggi, però, l’autonoma originalità dell’artista sembra avere un costo: la misura della sua affermazione finisce per consegnarsi a quella dipendenza sociale, a quelle relazioni di potere (del collezionista, del mercante d’arte, del gallerista, grande o piccolo), il cui esito è il mercato, ormai globale.

Non c’è, davvero, un’altra più solida base sociale per la creatività? Non c’è un altro modo di «averne cura», che possa riguardare tutti?

(Continua, 2)

Video appartenente alla cena: