Perché compiamo atti di obbedienza a nostro svantaggio senza apparente costrizione?

Ne facciamo esperienza quotidiana. Siamo così asserviti al potere di un immaginario “felice” del rapporto della nostra individualità con le sue condizioni reali d’esistenza, anche quando il sistema nei cui termini si dà quella rappresentazione fagocita il nostro tempo in attività distruttive della nostra vita –  la catastrofe ecologica che avanza non è più solo una probabilità –, da rimanere quasi “insensibili” al problema di “come si fa a uscire” da una situazione di dominio, e a uscirne tutti insieme, indifferenti al problema dell’emancipazione, al problema cioè di una liberazione collettiva, comune.

L’“obbedienza” a un sistema di vita che va a nostro svantaggio, che non fa il nostro interesse, è una costante del nostro stare al mondo? O è solo un fatto “contingente”, soggetto alla possibilità della ribellione?

(1, continua)

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