In arrivo / Cena Nº70 - Mercoledì 10 Novembre 2021

La sindrome di Hyde Park Corner. Come trasformare i soliloqui in dialoghi

con Giuseppe I. Morello

Hyde Park Corner è quell’angolo di Hyde Park a Londra in cui chi vuole sale su un trespolo e fa un comizio ai passanti. È simbolo del parlarsi addosso, di una finzione di democrazia. Sei libero di parlare in pubblico ma non conti niente.

La conversazione pubblica sembra consegnarsi a una situazione analogamente insensata, e per di più caotica. Cosa è cambiato in seguito alla pervasiva diffusione dei social media? Esiste ancora un’opinione pubblica? Come hanno modellato i comportamenti comunicativi i media digitali? Come ritrovare il senso del nostro discorso pubblico in un contesto di verità a bassa intensità? Come ritrovare una verità condivisa in un mondo caratterizzato dall’uso ingannevole del linguaggio e dall’incertezza dei significati?

Insieme a Giuseppe I. Morello* proveremo a ritrovare nella nostra conversazione a tavola la “cornice” di uno spazio condiviso per il discorso pubblico.

Giuseppe I. Morello, giornalista professionista, ha tenuto lezioni di semiotica in diverse università italiane, attualmente insegna Linguaggio Radiofonico presso Università di Torino. È autore del libro La parola e il Leviatano: segni, linguaggio e retorica nel pensiero politico di Hobbes, Mimesis, Milano, 2016 e coautore del volume La radio in Italia. Storia, mercati, formati, pubblici, tecnologie, a cura di Tiziano Bonini, Carocci, Roma 2013.

1. L’agorà pubblica… una babele generale?

I social media sono la nuova agorà – la piazza dove si forma oggi il dibattito pubblico. Ma l’accesso a questo spazio virtuale, potenzialmente aperto a tutti, qualifica davvero la partecipazione – la “presa di parola” – di una moltitudine di individui come effettiva espressione di cittadinanza? Al suo interno, è davvero possibile esercitare un qualche incidenza politica, fornire cioè un contributo effettivo al processo attraverso cui deliberare e prendere decisioni sulla vita collettiva, comune?

Per Giuseppe I. Morello, è possibile trovare una risposta nell’analisi di quell’esperienza comune che si dà nel linguaggio, la conversazione, da cui dipende la soddisfazione o meno del  bisogno profondo di una reciproca comprensione.

Come funziona oggi la “conversazione” pubblica? Come il “dialogo pubblico” si riflette sull’individuo che vi partecipa? Come, attraverso la mescolanza pubblica in una pluralità di voci, l’individuo giunge a costruirsi un’«immagine del mondo» possibilmente condivisa?

Come cambia allora, nella attuale fase evolutiva dei mass media, lo spazio del discorso pubblico? Forse si sta verificando qualcosa di irreversibile nella produzione di senso della nostra vita comune.

(1, continua)

2. Come costruire un senso del mondo nell’agorà virtuale? A scuola?

Come si forma un’«opinione pubblica» matura, consapevole e informata sul mondo all’interno del “vociare” senza filtro dei social media? Quali criteri del discorso, di tipo conversazionale, è possibile far valere nello spazio del dibattito pubblico? È possibile ricondurre la pluralità dissonante delle opinioni a un “senso del mondo” condiviso?

Al di là di fenomeni mediatici di immedesimazione collettiva – di tipo fusionale, dal valore simbolico, come è il caso Greta Thunberg – il limite organizzativo di dare voce a una moltitudine ai fini della costruzione di un’opinione pubblica, in grado di avere rilevanza nei processi decisionali sulla vita pubblica, forse ci obbliga, nell’ipotesi di Giuseppe I. Morello, a rassegnarci all’ascolto di un “bailamme” permanente. Come di un rumore di fondo.

Da dove partire, allora? Dal rimpianto di un’istruzione scolastica tradizionale? Forse però è proprio la permanenza di  un canone formativo altamente selettivo, perché basato su una disciplina comportamentale – l’immobilità dei corpi nello studio – orientata quasi esclusivamente su competenze cognitive di difficile appropriazione per il mondo esperienziale dei giovani oggi, a essere inadeguata in partenza.

(2, continua)

3. Dare corpo alla piazza virtuale: una battaglia simbolica tra scienza e arte?

In uno scenario futuro, di che natura sarà lo spazio – uno spazio comunicativo – dell’esercizio politico del linguaggio, del dibattito pubblico? Perché sarà la modalità di partecipazione offerta da questo spazio – una piazza virtuale? – a definire al tempo stesso la nostra posizione nel mondo.

Un’agorà pubblica che sarà sotto il segno di una “finzione”, di una presenza, la nostra, di individui a immagine di avatar? La possibilità di scongiurare questo esito, e di dare corpo al bisogno del fare politico, del partecipare alla definizione delle condizioni materiali della vita comune, di convivenza, chiama in causa una modalità d’uso del linguaggio.

Perché il linguaggio? Perché è nel linguaggio che facciamo affermazioni sulla realtà, su quello che ci accade, ed è nel fare riflessioni su che ci accade che siamo quello che siamo, che “noi esseri umani siamo umani nel linguaggio” (H. Maturana). Che è poi ciò che tiene insieme, e al tempo stesso in tensione, l’esperienza del linguaggio e della scienza e dell’arte.

Forse però abbiamo ancora bisogno di imparare come nel nostro fare politico, e nel nostro “fare simbolico”, è in gioco il nostro operare come esseri biologici, corporei, viventi. E, questo, è un vincolo ineludibile. E forse anche un terreno di battaglia per il senso della nostra stessa convivenza.

(3, continua)

4. Tra social media e agorà politica: tanto non cambia davvero niente?

Il mondo, così com’è, non va bene. Farne venire un altro, e per starci bene, è però un problema. Anzi, è il problema per eccellenza della politica.

Ma se l’attuale giustificazione dello stato delle cose non dà spazio a un’alternativa, all’opportunità di collaborare alla creazione quotidiana di un mondo della convivenza, in un progetto comune, allora il senso di impotenza verso il cambiamento, è un problema per la politica. E, soprattutto, se questo sentire è qualcosa che accade nelle giovani generazioni – «tanto non cambia niente».

Se poi l’attuale gestione della “cosa pubblica”, del bene comune, relega l’individuo a una vita emozionale rassegnata all’irrilevanza sociale, con il suo sufficiente carico di sofferenza e di difficoltà di stare al mondo, che altro spazio d’azione resta – e sui social media e nella piazza – se non quello dell’intrattenimento? Della distrazione nello svago?

L’emozionalità della convivenza, con cui si produce la vita comune – uno stare insieme – non sembra essere oggi al centro dell’interesse dell’agire politico. E se lo fa, lo fa solo nella prospettiva della competizione e della negazione dell’altro, secondo il modello dell’ideologia del “mercato”, della prevalenza del potere.

O, intanto, è il capitalismo di mercato a essere in crisi, a non funzionare più come promessa di crescita illimitata?

(4, continua)

5. Prendere contatto con le imperfezioni (differenze) del mondo

Nell’Occidente, la visione consensuale, se mai è stata tale, del mondo non regge più. Il compiersi di una visione desiderabile della convivenza umana nella partecipazione della moltitudine stessa degli esseri umani – la messa in contatto di una molteplicità di mondi, che la Rete rende possibile – rimane un’utopia.

È un compito dell’educazione farsi terreno di contatto tra visioni plurali del mondo? Forse. Ma quale educazione? Quella che sa guardare alla pluralità che abita ogni individuo, aperta a territori della vita mentale, non riducibili alla presa cognitiva soltanto linguistico-verbale (scolastica) dell’esperienza di apprendere.

Ma dove sta, al presente, un luogo comune di incontro – è la domanda di Giuseppe I. Morello? Dove si dà un modo di vivere, che permetta la pratica di una koinè, di una lingua comune? Una comprensione reciproca richiede di riconoscersi in uno spazio condiviso, richiede una storia, in cui la produzione dell’umano consista nel fare della base emozionale (del desiderio) della relazione con l’altro, e con il vivente tutto, un punto comune di riferimento – un confine di senso, la pertinenza dello “stare insieme”, della nostra stessa convivenza.

Non sarà, invece, che quella storia è più facile da perseguire nella comune adozione di una diffusa idiozia?

(5, fine)