Conversazioni conviviali

Una tacita tesi sostiene la pratica conviviale di C O N D I R S I.

La convivialità è una pratica umana riflessiva, di riflessione sull’essere umano, basata sulla condivisione. Attorno alla tavola si realizza uno spazio di convivenza che in sé, in piccolo, è un mondo. Invitati a sederci a tavola, per prima cosa ci chiediamo qual è il nostro posto: è una domanda che equivale a quel bisogno generale, da soddisfare, di prendere posizione verso sé stessi – quel comprendere qual è il proprio posto nel mondo.

La convivialità a tavola, come ogni altra costruzione sociale, è una forma significativa della nostra vita. È data per scontata, ovvia. Per capire perché è così, occorre risalire alle premesse strutturali di una cultura, che la stessa pratica conviviale nella sua specificità rende attuale. A sua volta questa pratica viene a dipendere da un complesso di altre pratiche sociali e della tradizione culturale che l’ha generata, la cui costruzione non è indipendente dallo spazio sociale che la pratica conviviale a sua volta genera. E, in questo senso, la pratica conviviale è una «messa in prospettiva» del mondo in cui viviamo.

Intorno alla tavola si realizza una vera e propria visione del mondo, un ordine sociale di esistenza, almeno, in una delle sue possibili condizioni. Da esplorare. Il convivio è parte del nostro immaginario culturale dell’ordine sociale, nei suoi processi di inclusione e di esclusione, dalla disposizione del posto a tavola rigidamente gerarchica fino all’espressione utopica di una disposizione paritaria – come per l’istituzione medievale della Tavola Rotonda, utopia dell’immaginario cavalleresco dell’uguaglianza sociale.

Il tema dell’ospitalità, dell’accoglienza dell’altro, è al centro della pratica conviviale. Proprio perché il suo accadere è gravido di instabilità, è un’esposizione al rischio o, addirittura, al pericolo – situazione che si dà espressamente nella figura dello straniero, nell’immagine inquietante dell’estraneo. È, questa, una figura che rappresenta, per così dire, un’espressione limite: segnala l’esistenza di un perimetro, il confine di un ordine sociale stabilito, che ancora fa appello a ciò che vale al suo interno come legge, come diritto, al diritto cioè dell’ospitalità della tradizione occidentale, e non solo, e al tempo stesso si apre all’esterno, a ciò che sta fuori…

L’ospite che viene da fuori è l’immagine dell’altro come colui che non conosco, e vale per tutti: ognuno è straniero all’altro, e forse anche a sé stesso. Il problema dell’altro – chi è l’altro? – è il suo essere estraneo, altro, potenzialmente amico o nemico; ed è proprio a partire da questa condizione di «non sapere» che si avvia la pratica di ridefinire sé stessi, e il proprio posto nel mondo. La presenza dello straniero – lo sconosciuto – è la configurazione in forma reciproca della riflessività, apre uno spazio, in quell’essere altro da sé, che segnala che qualcosa è da preservare, qualcosa che richiede scoperta, invenzione: e, al tempo stesso, permette di fare del reciproco riconoscimento di un comune bisogno di espressione un punto di incontro, di ascolto, di reciproca accoglienza. È una riflessività critica, problematica, conflittuale anche.

È una figura che vale per un’epoca di incertezza come la nostra, del nostro non sapere già dove si è, dove si sta!

È proprio lì, a tavola che qualcosa di inatteso accade. È nel momento della percezione del limite, dello scontro e dell’incontro potenziale, che ci si apre all’altro, alla sua diversità, a ciò che è altro da sé; è nel contatto, nella relazione, che avviene quello che è inevitabile, la metamorfosi, la trasformazione metabolica, di cui si nutre la conoscenza: fare dell’altro, del suo mistero, il suo essere sconosciuto, il punto di riferimento di un mondo diverso da offrire alla comprensione di sé. E, se possibile, da offrire alla ricerca di una maggiore soddisfazione comune, al bisogno di felicità.

A tavola, la pratica riflessiva umana si fa pratica sociale. Non avviene in un vuoto, accade nell’atto dello scambiarsi, nell’offrire e nel ricevere, cibo e parole. L’atto di conversare e l’atto di mangiare insieme si rivelano per quello che sono, attività simboliche e quindi sociali per eccellenza.

La conversazione a tavola, aperta all’altro, è importante quanto il mangiare e il bere. Si alimenta del gusto, della passione che si sperimenta per l’argomento, per ciò di cui si parla, e al tempo stesso vale per le parole ciò che vale per il cibo: si diventa consapevoli di cosa vale la pena gustare, di cosa vale la pena pensare insieme. Ed è proprio dalle differenze del gusto che è possibile cominciare a interrogarsi sulla necessità di incrociare le diverse posizioni a partire dalla quale ciascuno si apre al mondo e dà ad esso senso; che è possibile cominciare a risalire alle premesse percettive, sensibili e culturali, a partire dalle quali si è appreso a dare senso alle nostre esperienze, a convalidare la nostra visione del mondo. È da questa reciproca riflessività che diviene possibile dischiudersi al riconoscimento di una comune umanità – alle condizioni reali di esistenza che la rendono possibile –, al rispetto reciproco di una comune dignità. Eppure  ciò non basta.

Perché non qualsiasi conversazione ci interessa. Ma una conversazione come fondamentale ricerca di confronto o, meglio, di ascolto, nella comune intenzione di parlare per apprendere. Non quindi parlare per avere ragione, ma per promuovere accettazione e rispetto gli uni degli altri, nel sapersi cogliere come individuo fra altri individui.

Che dunque la convivialità sia quindi un processo riflessivo, basato sulla condivisione, risulta più evidente se ci poniamo la seguente domanda: a quali condizioni il contatto, il legame sociale che la tavola istituisce, accresce la comprensione del nostro stare al mondo? O, altrimenti, a quali condizioni il parlarsi, il conversare per comprendere ciò di cui si parla attiva la comprensione di un legame con gli altri?

La conversazione che ci interessa quindi à quella che di fatto ci consente una riflessione sulla pratica sociale stessa dello stare insieme. Una conversazione, che è essa stessa un’esperienza di apprendimento su cosa vale la pena pensare insieme, il cui esito non può essere dato per scontato: perché non è possibile avere una comprensione del mondo, e immaginarne un futuro – fare cioè affermazioni relative alla realtà –, senza farsi carico di come ci stiamo, nel mondo. E, viceversa, non è possibile interrogarci sui modi della nostra con­vivenza senza farci carico delle reti della vita, della natura come corpo vivente della nostra storia.

A tavola è più facile comprendere che la condivisione del cibo – il suo dono – è una messa in gioco della costituzione dell’individuo, dei processi sociali che ne fanno un soggetto la cui invenzione si realizza in relazione alla natura e con la natura.

→ Quali sono le premesse per pensare l’autogoverno, da parte dell’umanità integrata, della produzione e riproduzione del suo corpo collettivo nella e con la natura?

A tavola è più facile comprendere che ciò richiede lo sviluppo di una riflessione sul conoscere, la cui cifra sia l’espressione incorporata, sensibile della vitalità; e che al tempo stesso questa richieda un’invenzione progettuale, una creatività nuova, un’arte della convivenza, in grado di affrontare la situazione attuale di minaccia alla sopravvivenza della specie umana.

→ Come discutere pubblicamente del bisogno di socialità dell’essere umano?
→ Come facciamo a sapere se la società che vogliamo – una questione etica – corrisponde a ciò di cui abbiamo davvero bisogno – una questione ontologica – per poter sviluppare ciò che è comune come “prodotto” del e nel fare insieme, come espressione cioè della socialità umana?
→ Insomma, come sapere in che modo vivere insieme, e trovare un consenso in pratica sulla progettualità dell’arte della convivenza?

A tavola è più facile comprendere che la competizione è distruttiva del legame sociale; che, al contrario, un modo di vivere basata sulla cooperazione, insomma, una cultura della cura, per la quale il divario cognitivo e affettivo tra gli individui è un problema per la convivenza, riconosce che la consensualità è la dimensione centrale dell’intelligenza stessa.

→ Come la riflessione sull’istituzione umana dell’educazione, e della trasmissione culturale tra generazioni, si traduce in critica della disparità di accesso a una effettiva condivisione, a una effettiva socialità?

Sono domande da cui, in questo spazio, occorrerà partire per istituire una collaborazione a più voci, una sorta di letteratura conviviale.