In arrivo / Cena Nº48 - Mercoledì 6 Giugno 2018

L’essere umano, una macchina fragile

con Camilla Carbone

«L’uomo macchina», descritto da J.O. de la Mettrie, è davvero la «morte dell’anima»? O questo modo di porre il problema dell’immagine dell’uomo – del dualismo tra corpo e mente – è l’inutile residuo di un simbolismo linguistico della tradizione culturale dell’Occidente?

L’immagine dell’uomo come macchina neurobiologica, che emerge dalla ricerca e dalla pratica delle scienze del cervello, ci restituisce forse un’immagine più realistica. Quella, appunto, di una macchina non banale, una macchina complessa nel suo «funzionamento», per cui la realtà è quella di un parallelismo – un accoppiamento strutturale – di variabili molteplici, ambientali, biologiche e personali. Un’immagine, poi, che ci aiuta a portare l’attenzione sulla costitutiva fragilità della vita umana.

Questa nuova figura di uomo-macchina è davvero così indigeribile?

A sostenerci nell’assimilare questa nuova comprensione della «macchina umana» ci sarà Camilla Carbone

1. La macchina umana è dentro un ambiente

L’essere umano, macchina neurobiologica? Una macchina, per le scienze del cervello, la cui osservazione restituisce l’individuo alla complessità del reale, e per cui la frattura tra corpo e mente vale soltanto come un inutile residuo linguistico della tradizione culturale dell’Occidente.

È una definizione che, per Camilla Carbone, rinvia al fatto che la malattia – come il decadimento cognitivo, nelle sue molteplici manifestazioni – è sempre una ‘verità’ singolare: il «funzionamento» della macchina si riferisce sempre all’individuo nella sua storia, un individuo che si compone di molteplici variabili, biologiche, emotive, personali, e che nell’imparare a costruire uno spazio fisico, un ambiente, già da sempre sociale e culturale, ne viene a sua volta costruito.

Ma, davvero, oggi la pratica medica, l’arte della guarigione, è all’altezza di tale immagine dell’essere umano? Come sapere di un osservatore che partecipa alla costruzione del suo stesso oggetto di osservazione?

(1, continua)

2. Macchina, una metafora per l’essere umano?

La metafora della macchina, per descrive o definire l’essere umano, risponde certo al criterio “riduzionista” delle scienze dure. Ma, come ogni metafora, ha il potere di mettere in evidenza qualche aspetto significativo dell’esperienza umana della realtà.

L’idea-chiave è quella del “funzionamento” umano. Da una parte c’è la sua efficienza, un parametro di valore; dall’altra c’è la soglia della fragilità – il decadimento – della creatura umana, e la sua debolezza, anche quotidiana. E, quest’ultima, ci fa ricredere su quel sentimento per cui ognuno esiste solo per sé stesso, come a sé stante. E ci ricorda invece che abbiamo bisogno degli altri per dare senso alla nostra vita.

E la conversazione a tavola si è fatta vivace.

(2, continua)

3. La fragilità della macchina umana

In effetti, la metafora della macchina applicata all’essere umano rimane al fondo ancorata a un’immagine di auto-consistenza, nel suo “funzionamento” e, per quanto il suo grado di complessità possa essere elevato, pur sempre riparabile, a ingranaggi o a pezzi sostituibili.

Ma come dimenticarsi che la “costruzione” della macchina umana non è già autonoma fin dall’inizio. Che noi siamo esseri dipendenti dal processo di apprendimento della nostra stessa costruzione. E anche che il nostro “decadimento”, la nostra fragilità, è il punto di partenza per riconoscerci in una comune umanità: che abbiamo cioè bisogno degli altri per apprendere?

E poi è proprio vero che le condizioni reali della nostra vita sociale ci permettono di realizzare la libera espressione della nostra personalità? Allora perché «il chiedere aiuto» è di fatto un tabù sociale?

(3, fine)