In arrivo / Cena Nº46 - Mercoledì 7 Marzo 2018

Per farla finita con il ‘68

con Peppino Ortoleva

«Il Sessantotto (o movimento del Sessantotto) è il fenomeno socio-culturale avvenuto negli anni a cavallo del 1968, nei quali grandi movimenti di massa socialmente eterogenei (operai, studenti e gruppi etnici minoritari), formatisi spesso per aggregazione spontanea, interessarono quasi tutti i Paesi del mondo con la loro forte carica di contestazione contro i pregiudizi socio-politici. Lo svolgersi degli eventi in un tempo relativamente ristretto contribuì a identificare il movimento col nome dell’anno in cui esso si manifestò in modo più attivo.» (Da Wikipedia)

A cinquant’anni di distanza, di quale comprensione abbiamo bisogno per capire il ‘68? C’è oggi un’immagine condivisa del ’68? Fu un moto di ribellione generazionale? Una contestazione politica, una rivoluzione culturale? Ma poi, quale ne sia stata la sua natura, la sua posizione critica, verso la società capitalistica e la sua cultura autoritaria e patriarcale, ha vinto o ha perso? È stato un movimento politico che ha inciso o no nella quotidianità della vita sociale?

Le interpretazioni al riguardo, come fu da subito, si polarizzano. Lo sviluppo attuale della società dell’individualismo, del nuovo capitalismo neoliberista, per alcuni è da ricondurre al trionfo del ’68, per altri invece proprio alla sua sconfitta.

Insomma, il ‘68 è finito? E non avrebbe dovuto finire? O è meglio farla finita con il ‘68?

Ad aiutarci a sciogliere qualche nodo critico sarà con noi Peppino Ortoleva.

1. Basta con certi discorsi sul ’68

Dopo 50 anni, il ’68 è passato alla storia. E la cosa richiede una valutazione più seria di quella che può offrire un clima da anniversario. E tuttavia Peppino Ortoleva ci ha offerto un’occasione di riflessione tutt’altro che banale.

Con alcuni discorsi, almeno due, sul ’68 occorre però farla finita.

Il ’68, davvero, non ha in realtà cambiato nulla? O, se non è così, quale cambiamento ha prodotto nella storia?

(1, continua)

2. Il ’68, ultima messa in scena dell’idea di rivoluzione

Qual è stata la rilevanza storica del ’68?
Per Peppino Ortoleva il ’68 ha avuto un’incidenza politica. Non quella però che si aspettava.
Il ’68 è stato l’ultima messa in scena dell’idea di rivoluzione – un mito politico che ha attraversato due secoli, dalla Dichiarazione di Indipendenza Americana fino al maggio ‘68.

Il fascino del ’68 sta nell’aver messo fine alla storia stessa dell’idea di rivoluzione. L’idea di un cambiamento radicale di tutto, dell’umanità stessa, con tutti i miti di allora – e fra questi il Che – si consuma, invece che nella noia, in un’ultima grande fiammata generazionale: milioni di giovani che alzano la bandiera rossa con il desiderio di cambiare tutto.

Allora il ’68 non ha cambiato niente? Oppure, in questa celebrazione finale del mito della «rivoluzione dentro la rivoluzione» qualcosa, da qualche parte, è cambiato?

(2, continua)

3. Il ’68, le identità come chiave della politica

Che cos’è successo di radicale nel ’68? È cambiata la politica.

Per la prima volta, dice Peppino Ortoleva, con il ’68, da un parte si è data una politica globale, fuori dalle identità degli stati nazionali, dall’altra, al tempo stesso, si è affermata l’idea di un mondo fatto di identità molteplici. È il diversitarismo, l’idea che ora nel mondo ciò che conta è la differenza – i neri sono diversi dai bianchi, le donne sono diverse dagli uomini, gli omosessuali sono diversi dagli eterosessuali.

Dentro il processo della mondializzazione, che era già in corso – la tecnologia del container è del ‘70 –, con il movimento del ’68 si compie una svolta della politica: ora si va verso la nozione di identità come chiave, elemento base, della vita della politica.

(3, continua)

4. Il ’68 e il desiderio di cambiamento

Come fu possibile il ’68? Un fenomeno planetario. Il fatto è che non fu il solo.

Erano gli anni ’60. E altri fenomeni planetari di costume, di cultura giovanile, si registrano in quegli anni.
A livello di mentalità, il senso di appartenenza della condizione umana a una condizione planetaria è un passaggio che avviene tra l’orrore della bomba atomica di Hiroshima  e il lancio del satellite artificiale Sputnik 1. Un’acquisizione della generazione successiva alla Seconda guerra Mondiale.

A spiegare l’espansione planetaria della cultura, è, per Peppino Ortoleva, l’avvento, profetizzato da Mashall McLuhan, del «villaggio globale», dell’era della connessione elettronica del mondo.
Che, di per sé, era già un cambiamento radicale della storia.

È in questa condizione che nel ’68 fu possibile il radicamento planetario di un desiderio di cambiamento, di rivoluzione?
Cosa è venuto meno da allora?

(4, continua)

5. Excursus – Sul conflitto sociale

Che l’approccio “rivoluzionario” dei movimenti sociali degli anni ‘60 al problema dell’ordine sociale – sempre l’espressione di un particolare sistema di potere – sia da mettere da parte, sembra un dato di fatto.

Ma allora come riprendere un discorso sul conflitto sociale, senza il quale, come ci ricorda Montesquieu, la società è una società senza libertà? Per Peppino Ortoleva, riprendere il discorso sul conflitto sociale – cominciare dagli oppressi – significa rendere la società più trasparente a sé stessa.

E in effetti, spazi di scontro per il conflitto politico non mancano. Che fare allora?
Solo bisogna ricominciare da capo. Si tratta di andare sul territorio, parlare con le persone e ascoltare, ascoltare, ascoltare e ascoltare.

(5, continua)

6. I giovani, tra il mito del ’68 e il conflitto sociale, oggi

La rivoluzione non è all’ordine del giorno. Anzi.
Di certo, non per le attuali giovani generazioni.
Il mito del ’68, se sopravvive, resta tale.

Qual è allora la reale condizione giovanile, oggi?
Di certo, sul piano politico, e in maniera diffusa, non si esprime nell’aggressività o nell’uso della violenza.

Ma, quella attuale, non è però una generazione immobile.

La chiave per leggere la partecipazione dei giovani alla vita sociale sta forse nella loro ricerca di pienezza, di un’esperienza di sé ricca, di una libera espansione della loro individualità? È allora nelle condizioni materiali e sociali che ne negano l’espressione che forse va cercata la potenzialità del conflitto sociale.

(6, fine)