L’errore è una pecora che brucia

Dire che cos’è un sogno, dice Gabriele Lodari, è una pretesa assurda. Al più, è ciò per cui funziona: il suo essere non nel contesto della ragione («il che cos’è»), ma nel contesto di una storia. Il sogno esiste nei suoi frammenti, una rapsodia di immagini aperta alla narrazione.

In ogni sogno c’è un punto, che Sigmund Freud chiama l’«ombelico del sogno», cui si arriva e non si può dire di più. Rimane enigmatico, senza un significato ultimo. Non c’è quindi nessun motivo di supporre che l’insieme di termini con cui si sostituiscono le immagini del sogno, come quelli di natura sessuale, per stare all’interpretazione freudiana, sia più originario o più vero di quelli di qualunque altro insieme. Qualunque altra sostituzione non fa che creare un altro sogno.

È quello che abbiamo fatto a cena, affidando i nostri sogni all’interpretazione visiva di Daniele Catalli. Daniele si è forse sbagliato a leggere i nostri sogni? Forse.
Ma se per ipotesi, e l’ipotesi è di Gianfranco Roselli, si sognasse per errore? Se il sognare stesso, la possibilità di sognare, non fosse altro che la possibilità stessa dell’errore, propria della nostra vita cosciente?

Non è forse l’errore la condizione dell’apprendere? Errore che rivela l’esistenza di una normalità del reale, ma anche la possibilità di una realtà diversa, da vivere diversamente, in un modo più aderente alla vita. Perché la vita non è riducibile al modellamento che ne subisce attraverso la cultura e l’educazione. Errore che svela, come un tocco divino, la traccia di un progetto di vita più creativo, di inattesa bellezza.

Come è successo una volta a Daniele Catalli.
La trascrizione di un sogno altrui, offerto allo schizzo della sua penna, conteneva l’immagine di una «pecora che brucia», un’immagine che si apriva a un’invenzione di qualcosa di numinoso, oltre l’ordinario.
Solo in seguito a Daniele è venuto il dubbio che forse c’era scritto «una pecora che bruca».

Ma quell’immagine è forse meno vera?

Dall’attualità del sogno al mondo che non è ancora

L’immagine di un dettaglio del sogno prefigura una storia. Ma il suo farsi nel tempo, il suo movimento, ci restituisce il passato o annuncia il futuro di un individuo?

Forse, il sogno contiene entrambe le direzioni. A guardare le immagini dei nostri sogni, tutto è presente, e quel che va in scena, nella sua attualità, sembra avere la forma di uno spazio vissuto, di un paesaggio entro cui trovare l’orientamento, il nostro posto nel mondo, il tempo del nostro divenire. Nel sogno, il percorso non è già preordinato, ma, come avviene all’interno degli spazi affettivi del nostro vivere, dove si danno svolte improvvise o incontri inattesi, è piuttosto un tentare, un osare, un esporsi, un essere in ricerca.

Nel suo procedere, forse, il sogno ci invita a guardare non ai termini specifici che mette in relazione, ma alla relazione di cui è esso stesso il disegno. E, come dice Michel Foucault:

Il soggetto del sogno, o la prima persona onirica, è il sogno stesso, è il sogno nel suo insieme. […] Sognare non è un altro modo di fare esperienza di un altro mondo, ma per il soggetto costituisce l’esperienza più radicale del suo mondo; e se essa è così radicale è perché l’esistenza, come lì si annuncia, non è ancora mondo.

(da Il sogno di Michel Foucault)

E se il sogno non fosse altro che la «messa in relazione» con gli altri, con il mondo, metafora del bisogno di «prendersi cura» di noi stessi nel mondo? Al fondo di ogni immagine, non troviamo forse ogni volta l’emozione che la anima? «Emozione senza la quale – come dice Gabriele Lodari – non c’è racconto. È il desiderio stesso che continua a lavorare in noi, qualcosa di enigmatico, che esiste inconscio, che ritorna per trovare la via del racconto. Perché il non detto, l’indicibile, ancora è da dire».

Essere nel sogno non è qualcosa di passivo, ma di attivo. È la costruzione attiva e creativa della nostra vita, la scoperta e l’articolazione di una vita per noi più vera. È fare del sogno un’arte del vivere.

(3, fine)

Video appartenente alla cena: