Come uscire dalla tendenza verso la “negazione”, che segna la costruzione delle soggettività individuali, la cui esperienza spaziale, temporale, corporea e simbolica si struttura appunto attraverso la precarietà, l’instabilità e l’impotenza esistenziale e sociale della vita vissuta?
È possibile “mettere in gioco” altre forme di costruzione della soggettività? A quali “tecnologie del sé” occorre fare ricorso per una diversa riappropriazione della corporeità – più carnale–, per una padronanza di sé che al tempo stesso apra a nuove forme di socialità?
Di quale “domanda giusta” abbiamo bisogno per un’etica utile alla convivialità? C’è bisogno di una domanda che renda possibile la costruzione futura di una soggettività collettiva – un “noi” – come risultato di una pratica del fare in comune, e non del contrario, di una soggettività sociale che deve preesistere, già così com’è, alla domanda stessa. Non c’è soluzione al problema in questa prospettiva, ma solo l’esito di un incessante “porre domande” che si risolve nell’arroganza di una ricerca infinita, dimentica di come la vita produttiva si radica, trova il suo vincolo della rete della vita tutta.
(9, fine)