Un’arte del processo (che si fa vivendo)

L’arte di vivere, per Epaminondas Thomos e Enea Solinas, è un’arte dei legami. E, proprio là, dove il contatto di sé con gli altri, con il mondo, sembra venir meno – al “grado zero” del contatto con il mondo, l’esperienza psicotica – proprio là, è possibile apprendere ciò di cui siamo fatti: che siamo i nostri legami.

Per paradosso, quel collasso della vita mentale nel nostro stare al mondo, che ci espone all’incomprensibilità, nel contatto con gli altri, quella perdita di senso non svela un “vuoto”, anzi, ci dice che siamo un corpo ancora pieno di passioni, un groviglio di affezioni, di pathos. Che è ciò di cui è fatta la nostra esperienza del mondo.

È, a partire da lì, che l’arte di vivere, arte povera, si interroga sulla “bontà” dei codici relazionali e comunicativi forti, che costituiscono le identità “normali” del vivere quotidiano, più spesso assoggettate a richieste di prestazioni elevate, di cui è l’individuo, nel suo isolamento, a doversi fare carico.

L’arte di vivere, quindi, è l’arte di praticare relazioni. È l’arte di uscire da quella situazione di “alienazione”, di frammentazione, solitudine e isolamento, delle nostre esistenze; che non vuol dire che ci sia qualcosa di perduto, da recuperare, ma, al contrario, che è un processo in avanti, che «si impara vivendo», un processo di trasformazione creativa del senso e delle identità sociali attraverso cui si fa la nostra vita, un processo di apertura a nuove e inedite possibilità di espressione.

L’arte di vivere, nella proposta di Epaminondas ed Enea, significa resistere alle forze dell’omologazione e del controllo, e, infine, di trasformare la crisi individuale in critica del legame sociale.

(3, continua)

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