In arrivo / Cena Nº89 - Giovedì 9 Novembre 2023

La metamorfosi della giustizia climatica

con Emanuele Leonardi

La questione ecologica è un problema politico. A partire dai tardi anni Ottanta del Novecento, il cambiamento climatico ha suscitato risposte politiche da un lato di notevole portata, anche dal punto di vista del design istituzionale, dall’altro di scarsa efficacia. Per questo, a partire dal ciclo di mobilitazioni alter-mondialista, si assiste all’emergere del tema della giustizia climatica.

In un primo momento, complice una congiuntura storica favorevole alla collaborazione con il sistema ONU basato sulle COP (conferenze delle parti), gli attivisti si definiscono unicamente in opposizione al negazionismo climatico. In un secondo momento, però, si assiste alla progressiva radicalizzazione della giustizia climatica, in particolare a partire dalla COP 24 di Katowice (2018) e dagli oceanici climate strikes (scioperi per il clima) del 2019, che rappresentano il passaggio a una mobilitazione di tipo conflittuale.

In questo quadro, prende forma un’opzione politica centrata sulla convergenza delle lotte, che oggi trova una esemplificazione concreta nella lotta del Collettivo di Fabbrica ex-GKN –  una pratica politica con cui affrontare sul serio la crisi ambientale.

Tra ricerca di benessere – di una “buona vita” – e sfide ambientali, insieme a Emanuele Leonardi*, ci porremo una domanda audace: quali forme di azione messe in atto da “attori-attivisti del clima” ci daranno la possibilità di stabilire un sistema economico entro i limiti del pianeta e, in riferimento alla giustizia climatica, in grado di garantire una condizione di vita dignitosa per tutti?

* Emanuele Leonardi  è ricercatore presso il CES – Centro di Studi Sociali dell’Università di Coimbra. Partecipa al collettivo di ricerca militante Effimera, e pubblica sulla rivista Jacobin-Italia. I suoi interessi di ricerca sono rivolti in particolare all’ecologia politica, all’ambientalismo operaio e ai movimenti politici per la giustizia climatica. Attualmente la sua ricerca è incentrata sui temi della Transizione Giusta e dell’Economia Circolare, in particolare nel contesto del progetto H2020 JUST2CE. E’ È membro eletto del consiglio della European Society of Ecological Economics. Suoi articoli sono ospitati in riviste prestigiose quali Ecological Economics, Globalizations, Partecipazione e Conflitto, Sociologia del Lavoro, e Sociologia Urbana e Rurale. Per l’editore Orthotes ha pubblicato Lavoro Natura Valore. André Gorz tra marxismo e decrescita (2017)

Copertina: Social Justice © 2018 Fred Murphy

1. La giustizia climatica: riscaldamento globale e diseguaglianza sociale

La transizione ecologica è, per Emanuele Leonardi, soggetta a una “temporalità paradossale”. A partire dal 2019, da una parte, si può dire che “non c’è più tempo”, perché l’architettura istituzionale del governo globale del clima (dalla conferenza di Rio di Janeiro del 1992 al Protocollo di Kyoto del 1997 fino all’Accordo di Parigi del 2015) – una transizione dall’alto – è risultata fallimentare; dall’altra, si può dire che “siamo ancora in tempo”, perché a partire dalle piazze – una transizione dal basso – si è verificata un cambiamento di registro nella posizione del problema della crisi climatica.

A fare la differenza è il tema della “giustizia climatica”, che segna un punto di discontinuità nella gestione del processo di transizione ecologica, sia in termini di adattamento ambientale, che di mitigazione, di riduzione delle emissioni di CO2-equivalente, e inaugura un nuovo attivismo climatico. Quindi, nella percezione collettiva, immaginario catastrofista e pratiche di attivismo politico di critica delle diseguaglianze sociali convivono di fronte all’urgenza del problema della crisi climatica.

Ma che cos’è la giustizia climatica? E perché è importante sottolineare la discontinuità che questo tema introduce nella gestione del governo globale del clima? È la risposta al crescente divario nella distribuzione della ricchezza a livello globale, e al conseguente impatto dei modelli di consumo e di stili di vita dei super-ricchi sui livelli di emissione inquinanti sul pianeta, o, in altri termini, al fatto che i ricchi inquinano notevolmente di più che i poveri. L’incidenza del cambiamento climatico tra le diverse fasce di popolazione del mondo è semplicemente iniqua.

(1, continua)

2. La giustizia climatica, tra educazione ambientale e conflitto sociale

Cosa può fare l’individuo, per un cambiamento effettivo, ai fini della soluzione del problema della crisi ecologica? La risposta a questa domanda è non pensarsi come individuo (James Hansen). Questa soluzione “individualista” al problema della crisi climatica è il problema.

Anche là dove è in potere dell’individuo fare qualcosa, come la raccolta differenziata, l’efficacia di questa scelta non è in realtà indipendente da una dinamica industriale e da una politica di gestione dei rifiuti. Se l’industria del riciclo permane entro una dinamica di “crescita”, ai fini del processo di valorizzazione capitalistica, la raccolta differenziata resterà incapsulata in una dinamica di incentivazione, e non di riduzione, della produzione dei rifiuti.

È un sistema che si muove secondo una meccanica complessiva (il mercato) che sta al di sopra della scelta, per quanto virtuosa, dell’individuo, e ne limita la possibilità di orientare il cambiamento, soprattutto, se rimane desiderabile perseguire uno stile di vita improntato al modello di una società consumistica, come incentivo all’emancipazione dalle “miseria” delle condizioni materiali, in un’ottica, per quanto illusoria, di riduzione delle diseguaglianze sociali. Come allora uscire da questo schema di impostazione del problema?

Per Emanuele Leonardi la sola diffusione di una educazione ambientale per accrescere la consapevolezza delle soggettività individuali non può bastare. Lo spazio della battaglia non è solo culturale, il conflitto sociale è il terreno in grado di generare un cambio di scenario nel dibattito pubblico, un’apertura di consenso, di accordo sociale per una politica della  transizione ecologica – a partire dalla questione fiscale – dal basso. È il conflitto sociale a far crescere la civilizzazione del dibattito politico su una questione – la giustizia sociale – che coinvolge tutte le dimensioni della vita.

(2, continua)

3. Catastrofi ambientali: cambiamento climatico e consapevolezza culturale – Parte 1a

Qual è l’impatto crescente delle catastrofi ambientali nella percezione della crisi climatica? Quanto un evento estremo climatico locale influisce sulla consapevolezza del problema globale del riscaldamento? E in che misura è generativo di politiche coerenti con l’urgenza della questione ambientale?

Difficile è, per le nuove generazioni, realizzare di fronte all’impatto degli eventi ambientali un equilibrio tra un “sentire”, carico di emotività, e un “mettersi insieme”, accedere a una forma organizzativa collettiva in risposta al problema della transizione ecologica.

Il rischio della catastrofe è, per Emanuele Leonardi, un terreno fertile per l’iniziativa collettiva, di solidarietà politica dal basso, orientata sul tema della  giustizia climatica.

(3, continua)

4. Catastrofi ambientali: cambiamento climatico e consapevolezza culturale – Parte 2a

Il tema del rifiuto riciclabile è, per Roberto Nada, un tema per l’educazione dei bambini e delle bambine. Una consapevolezza ecologica del rifiuto di plastica abbandonato (su una spiaggia, per esempio) richiede un approccio narrativo; c’è bisogno di una storia, per scorgere il contesto, la struttura temporale, che connette il rifiuto alla (ir-) responsabilità dell’attività umana, e riconoscere la violenza che la natura umana esercita sulla natura non umana.

Ma l’educazione ambientale è sufficiente a produrre una svolta nella gestione politica dell’ambiente? O c’è bisogno anche della competenza propria della ricerca scientifica e della sua divulgazione, per accrescere nel dibattito pubblico la consapevolezza della complessità del problema della transizione ecologica?

Quale soluzione adottare, ad esempio, per salvare la risorsa più vitale, che è l’acqua, sempre più a rischio di scarsità? Esiste già la consapevolezza culturale che non è più possibile permettere alla città di essere una voragine idrovora? Come progettare una città come luogo in grado di usare risorse locali e amplificarle nel territorio, senza sprechi e senza produzione di materiali non riciclabili? Un discorso che vale anche per le fonti energetiche della mobilità urbana.

Non è la tecnologia il problema ma la cultura di una mentalità predatrice della natura, la mancanza di visione olistica degli elementi della vita.

(4, continua)

5. Crisi del modello sociale e coazione a ripetere della politica economica territoriale

Perché a fronte di scenari di rischio – dissesti idrogeologici, erosione costiera, epidemie agroalimentari – si persegue un modello di sviluppo economico, tipo degli ultimi decenni, che si caratterizza per l’eccessiva pressione antropica sui territori (uso del suolo e delle risorse idriche), quale causa diretta dell’alterazione degli ecosistemi?

Eppure, quel modello di gestione, nel causare degrado ambientale (alterazione o distruzione di risorse scarse e irriproducibili, perdita di biodiversità), non fa che mettere in crisi lo stesso tessuto sociale, la cui esistenza è dipesa dalla relativa prosperità di quel modello di politica territoriale.

Per Emanuele Leonardi, perseverare in questo approccio progettuale mette in gioco la “vita decente” della popolazione di un territorio. Come allora spiegare questa tendenza al degrado ambientale e sociale, che non consente di immaginare un futuro? È solo un problema culturale – di “ignoranza” – di mancanza di conoscenze e competenze nella soluzione tecnica del problema ecologico? È un problema di miopia politica, di ricerca dell’immediatezza del risultato ai fini di costruzione del consenso, che guarda solo a interessi di breve periodo, in prevalenza di tipo economico?

Forse è un problema più radicale: la salvaguardia degli ecosistemi, e la loro gestione, anche tecnologica, come fonte di progresso e di educazione, richiede di ripensare la convivenza umana, il senso dell’umano come collettività, e il suo intreccio profondo con l’ambiente.

(5, continua)

6. Il cambiamento climatico non è un problema tecnologico

Nell’aggravarsi della crisi climatica, il requisito dell’urgenza è ciò che, in teoria, dovrebbe soddisfare una politica pubblica ecologista. Ma, in realtà, cosa si sta realizzando per far fronte anche solo alla questione della transizione energetica? Oggi, il problema principale della politica energetica dell’Unione Europea – l’elettrificazione dei consumi e la diversificazione delle fonti – non è concepita come una riduzione del consumo di energia. La transizione economica verso le fonti rinnovabili non si presenta come sostitutiva delle fonti fossili, è semplicemente aggiuntiva, con il risultato di incrementare, anziché ridurre, le emissioni di CO2e.

È possibile immaginare un radicale cambiamento di stile di vita – una riduzione dei consumi, soprattutto nei paesi ricchi –  che l’urgenza climatica comporta? In effetti, il cambiamento climatico è un nemico pubblico subdolo, perché è un fenomeno globale che agisce in un tempo relativamente lungo e, là dove si manifesta a livello locale con il carattere dell’urgenza, agisce in modi così diversi, da non consentire una percezione, una presa di coscienza di un’esigenza collettiva, di un operare per una comune crescita sociale.

Per Emanuele Leonardi, la lotta al cambiamento climatico sta invece riproponendo l’emergere di una dimensione di classe – una classe lavoratrice nel suo insieme. Il senso di una comune appartenenza di classe, un compito politico complesso, dipende dalla comprensione del fatto che la vivibilità del pianeta non si risolve in un problema tecnologico, ma chiama in causa la finalità complessiva, la dimensione sociale del processo economico della transizione ecologica.

(6, continua)

7. Il conflitto sociale, per una razionalità della transizione ecologica

Il greenwashing, una strategia comunicativa di marketing aziendale o istituzionale, presenta come ecosostenibili le proprie attività di politica industriale, e cerca di occultarne l’impatto ambientale negativo. È un tipo di informazione che pone un problema di accesso alla verità sullo stato delle cose. La realtà delle cose attiene alla riduzione dell’impronta carbonica (emissione di CO2e) sulla scena globale del mondo

Basta farsi una domanda, o due. La riduzione di emissioni, promossa dalle iniziative di politica economica a livello europeo, corrisponde davvero a un guadagno sull’impatto ecologico globale? Quale scenario razionale di riduzione – un obiettivo primario – è davvero auspicabile? La produzione industriale, ad esempio nel settore mobilità, è effettivamente pianificata ai fini di una “decrescita” compatibile con gli obiettivi della riduzione dell’impronta carbonica? A oggi, il modello della centralità dell’impresa risulta in gran parte fallimentare – a partire dall’omissione diffusa della disposizione costituzionale sulla responsabilità sociale dell’iniziativa economica privata*.

È possibile definire una razionalità del processo di transizione ecologica? Per Emanuele Leonardi è possibile a condizione di concepire la razionalità – la verità sulle condizioni di vivibilità ecologica del pianeta – come un processo che si costituisce, una costruzione che si afferma nella sua processualità, secondo una dinamica definita dall’oggettività del conflitto sociale. Allora, a questa condizione, in una dinamica di negoziazione, e forse di alleanza, diviene possibile apprendere un “piano di convergenza” tra i soggetti delle diverse classi sociali coinvolte nel processo storico della transizione. Altrimenti, “non se ne esce fuori”.

* Art. 41 – L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

(7, continua)

8. Quale “noi” nella lotta per la giustizia climatica?

C’è una domanda che è rimasta implicita nel corso della cena: chi esercita la critica della realtà esistente, oggi? Qual è il soggetto in grado di imprimere un movimento reale, una dinamica storica di trasformazione, tale da scongiurare la catastrofe ambientale annunciata? Quali sono i soggetti di una conflittualità sociale in grado di innescare un cambiamento di struttura nel modello economico attuale della transizione ecologica?

La risposta a questa domanda richiede di andare oltre l’affermazione di un “noi” – una generica dimensione collettiva come alternativa all’individuo. Qual è il contesto reale da cui origina un soggetto collettivo storico? A questa domanda Emanuele Leonardi risponde richiamandosi ad un’esperienza di formazione di una classe dirigente “dal basso” – quella del Collettivo di Fabbrica Gkn, una convergenza tra movimenti ecologisti e lavoratori di fabbrica – che si è definita nel corso del processo di progettazione di una fabbrica socialmente integrata e sostenibile.

È il conflitto sociale sulla giustizia climatica a determinare le caratteristiche di un soggetto pratico e le sue  possibilità conoscitive al fine di operare una critica dell’esistente (Vedere Il video – 2. La giustizia climatica, tra educazione ambientale e conflitto sociale).

Si tratta di uscire da una generica denuncia dell’origine antropogenica del riscaldamento climatico e la generica critica del neoliberismo economico, la cui fiducia nei meccanismi di mercato per la soluzione del problema climatico si è rivelata totalmente fallimentare, e in una proporzione terrificante: in trent’anni di governance globale del clima (un’azione dall’alto), le emissioni sono aumentate di più che nei 240 anni dal 1750 al 1990. Che è poi il fallimento di un governo globale mirato alla preservazione della stessa dinamica capitalistica, che non è in grado di affrontare la crisi climatica nella sua totalità, perché è essa stessa il motivo principale della sua origine.

Il problema è allora: da dove è possibile costituire il punto di partenza per una nuova fase del movimento per la giustizia climatica? E così riuscire a “pensare globale per un agire locale”.

(8, fine)

9. Appendice – Sulla pericolosità dell’IA, l‘incomprensione come problema

Il deepfake è una tecnica per la sintesi dell’immagine e della voce umana basata sull’intelligenza artificiale, usata per combinare e sovrapporre immagini e video esistenti con video o immagini originali. Un esempio, proposto durante la cena, è tratto dal sito di Elvis Tusha (https://youtu.be/v64PVC8AsLo?si=qTyHfhM71liICyKt)

La  “clonazione” virtuale di un personaggio esistente è cosi realistica da rendere impossibile distinguere un’immagine sintetica da una reale, la verità dalla contraffazione. Questa frontiera dell’IA è una sfida importante. Chiama in causa il senso della realtà stessa. È ancora infatti possibile stabilire una verifica di verità per i contenuti della comunicazione nel mondo virtuale?

La babele informativa dell’attuale universo comunicativo apre a un problema di fondo del funzionamento della comunicazione, quello dell’inevitabile inadeguatezza della comprensione  umana. È un mito quello di una “lingua universale” in grado di risolversi nella verifica “oggettiva” del suo contenuto, in una comprensione univoca, dotata di certezza; al contrario, il margine di incertezza che è inerente alla comprensione è l’altra faccia della virtualità della lingua: quella della sua plurivocità e ambiguità, come possibilità di essere diversamente. È la sua “imperfezione” a farne uno strumento flessibile, adatto ad affrontare, anzi a creare essa stessa, la complessità e la varietà dei contesti della comunicazione.

Nel mondo della comunicazione digitale, ciò cui allora occorre dedicarsi è alla verifica del contesto – la civiltà della scrittura che ci relega dentro un libro, a una superfice di segni, in apparenza dotati di stabilità e autonomia, come se in essi risiedesse il contenuto di un messaggio, forse ci ha disabituati a questo esercizio. Viceversa, la simultaneità, l’interattività e la reciprocità, e il mutamento di posizione, di ruolo comunicativo, che il mondo digitale della comunicazione richiede – un continuo adattamento sul piano emozionale, affettivo, cognitivo – comporta la riscoperta del carattere mutevole, incerto e incompiuto della comunicazione. E, questa generatività sociale, è qualcosa che è da apprendere.

(9, fine)

10. La metamorfosi della giustizia climatica – Momento conviviale 1

Sull’egemonia globale dei modelli di valore (stile di consumo) dell’élite più ricca

Paolo Furia: – Il primo che sapeva questo era Karl Marx. Sapeva che non basta essere sottoproletari dal punto di vista materiale, ciò che occorre è lo sviluppo della coscienza di classe. Ma lo sviluppo della coscienza di classe è un processo educativo, non è un processo in cui basta la condizione materiale.

11. La metamorfosi della giustizia climatica – Momento conviviale 2

Andrea Argena: – Si ritorna sempre lì, a una dimensione che è più un ripensarsi come collettività, senza quella dimensioni forse un cambiamento effettivamente radicale non lo si può ottenere in alcun modo. […] Questa dimensione collettiva è proprio da riscoprire in tutti gli ambiti della realtà alla fine.