In arrivo / Cena Nº34 - Martedì 25 ottobre 2016

Abbiamo bisogno di maestri?

con Domenico Chiesa

I verbi dell’educazione sono forse da usare in forma riflessiva, dove il «si» può assumere anche  più spesso un valore di reciprocità: educarsi come io mi educo e come io educo te e tu educhi me. Il verbo apprendere non prevede l’imperativo (apprendi!). Vale solo come verbo transitivo: io apprendo…

Il fatto è però che non si cresce da soli, l’apprendere è sempre un fatto sociale. Si cresce con qualcuno che ha più esperienza di me (è più vecchio) e con qualcuno che ha sempre la mia età. Per imparare si ha bisogno degli altri.
Ecco il problema del maestro.

Chi è un maestro? E maestro si scrive con la “m” minuscola o maiuscola? Se ne può fare a meno?

A parlarne, perché ne vale la pena, ci sarà Domenico Chiesa.

1. Cos’è un maestro?
Qual è il ruolo dei nuovi media in relazione all’educazione? Ciò che vale per il libro a stampa, oggi vale per il computer: sono entrambi archivi della memoria, della tradizione culturale. I media digitali sono artefatti esterni –  nuove tecnologie cognitive –, cui delegare la gestione e la mediazione del nostro apprendistato culturale.
Se è vero che, da una parte, il supporto di tecnologie della scrittura consente di liberare energia psichica per svolgere funzioni più alte della sola attività di mandare a memoria, e quindi di mettere quelle stesse energie a servizio della creatività e dell’immaginazione; d’altra parte, però, il rischio, nell’esternalizzare il sapere nelle memorie digitali, è che nella nostra testa non rimanga nulla, neppure quel che serve per avere accesso al sapere, alla cultura.
In questa prospettiva, Michel Serres ritiene che il san Dionigi decollato del pittore francese Léon Bonnat sia un’efficace metafora del ruolo della tecnologia in relazione alla memoria. La scena tragica della sua decapitazione viene così interrogata:

“Quale santità permise a Dionigi decollato di riprendere la sua testa da terra? L’oggetto, a fatica riconosciuto come tale dall’assemblea atterrita, all’improvviso si eleva al di sopra degli sguardi assassini e affascinati: sì, la testa della vittima tenuta dalle sue mani, sollevata al di sopra del cadavere acefalo, resta ancora un soggetto. Ma quell’altra testa, assente, la vede senza occhi, l’annusa senza odorato, la sente senza udito battere i denti e singhiozzare di sofferenza e senza cervello la giudica, senza bocca la proclama? Cieca, la testa fantasma guarda la testa reale, separata dopo la decollazione. È, qui, nudo e vuoto, senza facoltà, che Bonnat dipinse in un’aureola abbagliante di trasparenza, di fronte al cognitivo oggettivato? A che cosa o a chi paragonare la console, il computer e la sua immensa memoria, il suo schermo, la sua potente rapidità di calcolo, la sua fulminea classificazione dei dati… a quale testa piena e ben fatta, massimamente densa e genialmente fabbricata? A quale luce trasparente paragonare la nostra stessa testa vuota di fronte alle sue facoltà materializzate sotto vetro e plastica, in silicio e fibre ottiche? Divenuti tutti dei san Dionigi, ormai ci impossessiamo ogni giorno, per servircene, di quella testa piena e ben fatta che giace davanti a noi, portatori di una testa vuota e inventiva sul collo“. (da Michel Serres, Non è un paese per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere)

Da questa prospettiva, cosa significa ancora affermare il primato dell’educazione? Là dove il contesto tecnologico sembra appunto consentire al soggetto che apprende di farsi artefice del suo stesso processo di apprendimento, senza più bisogno di un maestro. Ma che cos’è un maestro?

(1, continua)

2. Internet un cattivo maestro?

Di fronte a Internet, al Web, gli adulti sono scomparsi? Per paura?

Forse è solo una questione di possedere nuove competenze nella gestione di un nuovo medium di trasmissione e di comunicazione del sapere, della cultura. Cosa, appunto, che è stata vera per qualsiasi passaggio a nuove tecnologie della comunicazione, dall’oralità alla scrittura, e dalla stampa alle nuove tecnologie dell’oralità (radio, cinema).

Per salvarci da un tale «cattivo maestro», dato che non è possibile praticare una totale disconnessione, basta apprenderne le chiavi di acceso o di lettura?

O occorre qualcosa di più? Perché il passaggio dalla cultura della realtà del «contatto» a quella della virtualità della «connessione», sembra di fatto ridefinire non solo la relazione di apprendimento tra maestro e allievo ma anche la costruzione stessa della nostra umanità.

(2, continua)

3. Chi insegna che cosa?

Di cosa parliamo quando cechiamo di definire che cosa fa di un maestro un «buon maestro»?

La difficoltà di riconoscerci, oggi, nella relazione, asimmetrica e, quindi, di autorità, con un maestro attiene forse al senso di perdita, al venir meno di una chiave interpretativa del mondo.
È della nostra situazione di smarrimento di un sistema di valori che parliamo?

(3, continua)

4. Il maestro in una società che cambia

Qui siamo arrivati al cuore della discussione, a tavola. Alla definizione del maestro come «studente saggio». Per il quale la «saggezza» è la condizione per fare della sua autorità, che è data all’interno dell’istituzione scolastica, e del processo di trasmissione culturale, uno strumento di libertà per chi ci viene per imparare.

Di qua la tesi di Domenico Chiesa (e Christian Raimo): la scuola è tale solo se è portatrice di cambiamento, del cambiamento della società.

Ma allora è forse il caso di chiederci: che società vogliamo?

(4, continua)

5. Il maestro, che mondo conosce?

La figura del  maestro («studente saggio») che Domenico Chiesa propone è un modello alto di scuola democratica, di cultura dell’emancipazione. Una scuola non della competizione, ma una scuola della costruzione consensuale della convivenza, fondata sul rispetto e sull’accettazione reciproca.

Per l’attuale realtà sociale e politica, questa proposta rappresenta piuttosto una scommessa, e richiede una battaglia politica.

È oggi un insegnante sufficientemente adulto da essere, come lo definisce Hannah Arendt, «un conoscitore del mondo»? Perché ciò vorrebbe dire, per l’insegnante, avere un’idea politica del mondo ed esercitare quella libertà e quella responsabilità che si producono nel farsi carico di volere o meno le conseguenze del suo fare, del suo insegnare, che appunto prepara un mondo, un futuro per i nostri giovani.

(5, fine)