In arrivo / Cena Nº92 - Domenica 31 Dicembre 2023

L’educazione sentimentale

con Gabriele Vacis

Ci sono parole che, improvvisamente cominciano a girare sulla bocca di tutti ma che nessuno si disturba a dire cosa vogliono dire! Allora: L’educazione sentimentale è un romanzo di Gustave Flaubert, quello di Madame Bovary: Madame Bovary c’est moi! 

L’éducation sentimentale dice più o meno le stesse cose di Madame Bovary, anche qui ragazzi che perdono la testa per donne sposate più grandi di loro, mamme, praticamente… amanti che restano incinte e muoiono di parto… Donne che la danno via facile… Sottotitolo di L’éducation sentimentale sarebbe histoire d’un jeune homme. Solo che i libri li leggono le donne.

L’Educazione sentimentale si impara sui libri, al cinema, a teatro, tutti posti frequentati dalle donne che, quando ce la fanno, ci trascinano gli uomini… Insomma, i maschi sono sempre più tagliati fuori. Madame Bovary c’est moi? Gustave, tu sei un uomo, un maschio! Sei monsieur Flaubert, altroché Madame Bovary!

Insieme a Gabriele Vacis* ci chiederemo da dove provengono le parole per dire l’emozione del sentimento amoroso, e se, nella loro “finzione” letteraria, quelle parole reggono il confronto con la realtà.

* Gabriele Vacis è regista, drammaturgo e autore televisivo e cinematografico. Ha promosso e diretto festival teatrali. È stato tra i fondatori nel 1981 del Laboratorio Teatro Settimo per cui ha curato la regia dei numerosi e storici spettacoli, tra cui: Libera Nos da Meneghello (1989); La storia di Romeo e Giulietta, Premio UBU 1990; Sette a Tebe da Eschilo, 1992; Novecento di Alessandro Baricco, 1994; Olivetti di Laura Curino, 1996; Totem, 1997; Macbeth Concerto, 2001.Ha curato e pubblicato diverse traduzioni, adattamenti teatrali e saggi, tra cui AWARENESS, dieci giorni con Jerzy Grotowsky, Rizzoli 2001. Dal 2002 al 2006 è regista stabile al Teatro Stabile di Torino per cui ha ideato Torino Spiritualità. Nel 2008 ha scritto e diretto il film Uno scampolo di paradiso, premio della Giuria al Festival di Annecy. Dal 2013 al 2017 è direttore artistico della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia. Nel 2017 ha fondato, per il Teatro Stabile di Torino, l’Istituto di pratiche teatrali per la cura della persona. È direttore della Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino.

1. Quale immaginario culturale per l’educazione sentimentale?

È la scuola, l’aula scolastica, a tenere insieme il burattino Pinocchio di Carlo Collodi e il maestro di Enrico, Giulio Perboni, del libro Cuore di Edmondo De Amicis, personaggi di due romanzi di formazione. Un contrasto, in uno spazio immaginario, di figure allegoriche – della trasgressione alle regole, l’uno, e dell’abnegazione di sé e della conformità ai valori borghesi (patria, famiglia e lavoro), l’altro  – che hanno dato forma ad un immaginario sociale sull’educazione a partire dall’Italia post-unitaria fino a gran parte del ‘900.

Un immaginario letterario che sembra rispondere a quel bisogno di formazione civile iscritto nella celebre frase di Massimo D’Azeglio (1798-1866): “Abbiamo fatto l’Italia, si tratta adesso di fare gli italiani”.

Ma, in questo immaginario culturale, che spazio è assegnato all’“educazione sentimentale” ? E, in generale, quale figura femminile è presente nella letteratura della seconda metà dell’800, dall’opera lirica ai romanzi, come L’educazione sentimentale e Madame Bovary di Gustave Flaubert?

Per la figura femminile, quando non marginale, ma al centro come figura di emancipazione, in contrasto con le richieste sociali di segno patriarcale dell’epoca, esiste generalmente un’unica via al suo compimento narrativo, la morte. Con questa eredità dell’immaginario culturale come fare educazione sentimentale?

(1, continua)

2. Quali sono i modelli di “educazione sentimentale” oggi?

Dov’è rintracciabile oggi nella società della moltiplicazione dei media una produzione culturale per l’educazione sentimentale? In assenza poi di “modelli culturali” – come lo sono stati nell’Italia post-risorgimentale Le avventure di Pinocchio o Cuore – in grado di svolgere una funzione di riferimento, di coesione sociale.

Questa funzione culturale, per Gabriele Vacis, non è più attribuibile al libro. O, almeno, non più solo al libro. Plurimi sono i modelli di creazione di immaginari culturali, e si distribuiscono su diverse modalità di comunicazione mediale – dalla tradizione del romanzo letterario all’universo dei videogiochi, dal mondo sentimentale del fumetto dei manga o dell’animazione degli anime alla pornografia. La loro fruizione risulta inoltre estremamente differenziata per genere.

Si trattava allora di esplorare quel territorio, che è proprio dell’immaginario narrativo, per poter comprendere quali sono oggi i modelli di identificazione sentimentale che interessano, nella loro autonomia, soprattutto i e le giovani adolescenti.

(2, continua)

3. Dove si fa oggi educazione sessuale?

È in quella linea sot­tile di con­fine tra la finzione e la realtà – su cui si costruisce ogni rac­conto, non meno che il racconto di sé – che “si fa” l’educazione sessuale? Perché, nel tempo in cui l’esperienza amorosa si presenta nella nostra vita, il desiderio emotivo profondo dell’incontro con l’“altro” richiede una storia.

A educare l’espressione del sentimento d’amore è ancora la “storia d’amore” che, dalla sua origine nella letteratura cavalleresca medioevale, definisce il “modello romantico” dell’amore? O non è, invece, quel modello a rappresentare un ostacolo oggi per l’educazione sessuale?

Nella sua fase iniziale, l’amore, riferito alla sessualità, all’intimità corporea che vi si associa, è problematico. E l’espressione del desiderio, che nel modello romantico si nutre della distanza, dell’assenza dell’altro, non aiuta. Forse però dell’influenza letteraria, per dare parole all’amore, non si può più fare a meno. È la letteratura stessa a generare il desiderio d’amore, a intensificarne l’interiorità.

Ma oggi, in una società in cui, per Gabriele Vacis, la vita tutta si trasforma in “intrattenimento”, dove la competizione, in una compulsiva ricerca individuale di soddisfazione, si fa spettacolo e genera una continua conflittualità, c’è il rischio di non avere più le parole per dire la relazione d’amore.

Allora dove soddisfare il bisogno di storie di intimità, oggi? C’è ancora sempre la possibilità di apprendere dall’amico o dall’amica che già è a conoscenza dell’intimità corporea o, come in Sex Education, si suppone che ne abbia l’esperienza.

(3, continua)

4. Excursus – PEM, ovvero del teatro come impresa sociale

Anche per la formazione teatrale è difficile sottrarsi alla dinamica, dominante nella società di oggi, della performance individualista – che per un attore o un’attrice significa la ricerca di un’affermazione basata sulla spietata competizione dell’audizione, del provino.

Un’alternativa è possibile. Ne è un modello PEM*, una compagnia di teatro che si fa impresa sociale, in base al principio che “l’unione fa la forza”.  È un “mettersi insieme” in direzione della cooperazione, di una regolazione della vita di teatro aperta, che fa  della costruzione «di uno spazio accessibile alle persone, partecipativo e inclusivo, che nutre la comunità e la società di cui è parte» la ragione della sua estetica.

*  PEM prende nome da un calembour a tema medico. In Neurologia, eseguire i “potenziali evocati” significa svolgere un esame diagnostico per risalire alla qualità del feedback cerebrale ad uno stimolo esterno, misurando la velocità della risposta elettrica ad un impulso generato nella periferia del corpo.

(4, continua)

5. La “scuola” della tragedia greca: la regola e l’eccezione, e il patriarcato

Che cosa, dei testi della tragedia classica (Eschilo, Sofocle, Euripide), ci ha lasciato la tradizione manoscritta in nostro possesso – tardiva e sicuramente epurata nel corso della secolare trascrizione monastica dell’epoca cristiana? Per Gabriele Vacis, «il nucleo pesante, il distillato» di una lezione, da cui emerge, per quanto attiene all’educazione sentimentale, ad esempio, la figura di Antigone come di colei che si oppone al potere sulla base dell’amore. E la stessa intensità vale anche per altre figure femminili.

E a differenza dell’oggi, dove tutto è “spettacolo”, è intrattenimento, finalizzato all’evasione, lo spettacolo della tragedia greca è «scuola», è educazione. E la sua lezione fondamentale sta nel mostrarci la drammatizzazione di un conflitto profondo che governa la vita sociale, e l’animo umano: la sussistenza di una regola, di un ordine del mondo, e al tempo stesso la sua trasgressione, l’eccezione.

E ci racconta così della contraddizione di un sistema, quello patriarcale – del dominio del maschile sul femminile, di una gerarchia dei sessi, che dalla Grecia Antica si è trasmessa al mondo occidentale e al suo immaginario – ma che non smette di confrontarsi con un altro possibile ordine del mondo, a “impronta femminile” e non basato su rapporti di dominazione.

Ma anche là, dove permane l’immaginario patriarcale, con il suo carico di violenza – cultura dello stupro per cui soddisfare un impulso sessuale equivale a un esercizio di potere ritroviamo ancora quella stessa tensione, quella contraddizione. Così anche nel grande teatro di William Shakespeare, è nel rigetto di un conflitto di potere che genera inimicizia, che la figura femminile di Giulietta reclama per il desiderio d’amore, come sua condizione, l’intimità corporea, e una reciproca intensità:

È solo il tuo nome che m’è nemico, e tu sei te stesso
anche senza chiamarti Montecchi. Cos’è Montecchi?
Non è una mano, un piede, un braccio, un volto,
o qualunque parte di un uomo. Prendi un altro nome!
Cos’è un nome? Ciò che chiamiamo rosa,
con qualsiasi altro nome avrebbe lo stesso profumo,
così Romeo, se non si chiamasse più Romeo,
conserverebbe quella cara perfezione che possiede
anche senza quel nome. Romeo, getta via il tuo nome,
e al suo posto, che non è parte di te, prendi tutta me stessa.                            

                                                  (Romeo e Giulietta, Atto II, scena II)

Ed è proprio questa istanza femminile di emancipazione a mettere in crisi oggi l’ordine patriarcale.

(5, continua)

6. La nostra società e la cultura “progressista” delle serie tv

Sono le serie tv a fare educazione sentimentale, oggi? La massiccia produzione veicolata dalle piattaforme globali dello streaming online (Netflix, Prime) sembra far emergere su scala globale valori di tolleranza e inclusione, e promuovere la questione identitaria, come la questione dei diritti soggettivi, di genere o delle minoranze – una questione centrale per una riflessione antropologica.

È una cultura che sembra avere oggi un’indubbia funzione “progressista”. Ma davvero è una cultura in grado di educare la nostra società al superamento della violenza che è intrinseca alla conflittualità sociale – fin dentro la sua relazione di base, quella tra uomo e donna? O non finisce, invece, per mantenere la questione identitaria entro un paradigma individualista, per cui la conflittualità sociale, la competizione esasperata, rimane l’orizzonte di senso della convivenza umana?

Anzi, per Gabriele Vacis, sembra che, della violenza autoritaria e distruttiva che ha segnato la storia del ‘900, per il cui superamento è nato il welfare state, non se ne abbia più memoria. La vita individuale sembra poter fare a meno del senso stesso della solidarietà sociale.

E, allora, per accogliere la “lezione” della tragedia greca antica (vedere video n°. 5 – La “scuola” della tragedia greca: la regola e l’eccezione, e il patriarcato, cena n°. 92 – L’educazione sentimentale con Gabriele Vacis), al permanere dell’individualismo, di quale “trasgressione” c’è bisogno, da urlare al mondo, per riuscire a sviluppare una riflessione collettiva sulle condizioni reali della società?

(6, continua)

7. Quel che manca è il corpo: “la bellezza sta nella relazione”

Una vera educazione sentimentale di cosa ha bisogno? Per Gabriele Vacis, c’è bisogno di fare esperienza dell’“altro” come portatore di un valore, della scoperta di una “simpatia” tra sé e gli altri – è il danzare camminando di Gimmy, un ragazzo autistico, è l’ascoltare il vento di Elisa, una ragazza autistica, è il giocare con il pallone di Daniele, un ragazzo con la sindrome di Down. C’è bisogno, insomma, di un’esperienza di riconoscimento, della scoperta di un’affinità̀ di valori, che si manifesta come interazione, di una interazione densa di significato, tra una realtà̀ (la natura, un oggetto), un artista e un fruitore, la cui espressione “incorporata” è fonte di grande piacere, come lo è, appunto, il fare esperienza della bellezza.

Fondare la nozione di bellezza su quella di interazione – di un incontro, nella sua pienezza sensoriale e sensuale – significa rendere possibile, per Gabriele Vacis, quella “transizione estetica” di cui parla Wendy Steiner: «Per molti secoli la bellezza, l’arte, – dice – è rimasta ostaggio della forma. Il futuro dell’arte è nell’interazione». La performance artistica di Marina Abramović in The Artist Is Present (2010) segna il punto di svolta di questo passaggio fondamentale per l’arte contemporanea.

Ciò di cui, quindi, c’è bisogno, per una educazione sentimentale, è pensarsi con il corpo, il che significa ripensare attraverso la nozione di bellezza la relazione tra estetica ed etica – una possibilità presente e, soprattutto, futura per il teatro e, in generale, per l’arte, di uscire da una funzione di intrattenimento e di spettacolo, e farsi invece espressione di “cura”, nella convivenza.

(7, continua)

8. Quale approccio critico all’immaginario patriarcale?

Quale approccio critico adottare verso quell’immaginario culturale che, a partire dall’Ottocento, si definisce patriarcato? E che, appunto, finisce per ridurre una struttura di dominio, la superiorità del maschile sul femminile, esito di un processo storico, a semplice condizione “naturale”, a destino relazionale tra i sessi, fuori dal tempo?

La riflessione femminista ci invita a guardare a quella narrazione da una diversa prospettiva. E, per cominciare, con la consapevolezza che, a partire dalla mitologia greca, la cultura occidentale nel suo fondo di violenza è una “cultura dello stupro” – dal mito del “rapimento” o, più aulicamente, del «ratto» di Europa ad opera di Zeus alla Bisbetica domata di William Shakespeare, e oltre -, è cioè la narrazione di un’oppressione storica sempre operante.

Questo interrogarsi sui fondamenti dell’immaginario patriarcale proviene da una lotta politica attuale. Ma sarebbe un errore, come osserva Monica Catalano, soprapporre la sensibilità del presente a fenomeni culturali che sono l’espressione di un contesto storico del passato. Il rischio è che, dopo aver decostruito quell’eredità culturale, si finisca per dimenticare che l’attuale posizione critica, una conquista culturale, appartiene essa stessa alla storia, è storia. E la storia è il modo in cui l’essere umano vive nel tempo.

Ancora, per andare avanti, c’è bisogno di tutta l’intelligenza appassionata, fuori da ogni indifferenza, che può emergere soltanto da una “coralità”, da un approccio collettivo in grado di uscire da quell’orizzonte di senso della cultura patriarcale, che è la conflittualità come sistematica regolazione della vita sociale e culturale. Una lezione politica, ancora, della tragedia greca, da I sette a Tebe di Eschilo ad Antigone di Sofocle e a Euripide.

(8, continua)

9. Educazione d’amore: come uscire da una relazione di potere?

Una lettura augurale di Gabriele Vacis, per il nuovo anno:

Un prete c’era qui […] che diceva messa prima, e faceva una predica assai semplice, sempre quella. Taceva a lungo presso la balaustra, fissando l’uditorio di rozzi ammazzatori di pidocchi, poi proferiva in tre brusche emissioni il suo messaggio:
 
                                  Bisogna — èssare — bòni.
 
Questa era la predica. Mio papà se ne ricorda chiaramente. Mi pare che quel nostro prete, che si chiamava don Culatta, predicasse in modo esauriente: che altro c’è da dire?

(Da Libera nos a malo di Luigi Meneghello)

E, infatti, che altro dire sull’educazione sentimentale? Resta la domanda «Come si fa educazione d’amore?» Perché al disincanto del modello dell’amore romantico non si sostituisca il cinismo del “controllo”, l’esercizio di un potere, anche attraverso la sessualità, in una relazione amorosa.

E, più in generale, come si fa a uscire da una relazione di potere? La riflessione sul sistema patriarcale complica il discorso: rivendicare il diritto individuale alla libertà è senz’altro il segno di una posizione culturale progressista, e infatti basta guardare alla realtà di fatto del sessismo, alla condizione di discriminazione di un sesso rispetto all’altro, e specialmente quello femminile. In questo contesto, la socialità degli individui sembra manifestarsi in apparenza come diretta dipendenza personale (al modo dell’antica patria potestas), come una relazione reciproca tra individui, e non invece come un potere estraneo, come subor­dinazione a un sistema di relazioni, che sus­siste al di là degli individui.

Ma entro questo contesto di senso, all’individuo, anche là dove lo si osservi sotto varie categorie, biologiche, sociali e culturali, che interagiscano su molteplici livelli nel definirne l’identità, cosa resta da fare se non basarsi sulla rivendicazione di essere portatore di una natura umana universale fuori dalla storia?

Forse, però, questa impostazione del problema non è sufficiente a produrre un cambiamento di struttura della vita sociale.

(9, fine)

10. Appendice – Sul significato sociale del lavoro, la guerra e la convivenza

Sul finire della cena si è svolta una breve conversazione sul tema del lavoro, densa però di implicazioni problematiche, non facilmente districabili, per il nostro futuro.
Qui mi concedo, ma mi sta a cuore, un’introduzione – “sproporzionata”, in molti sensi – alla brevità del video.

Qual è l’impatto dell’introduzione dell’intelligenza artificiale all’interno del processo lavorativo – ovvero della “macchina algoritmica” non più solo programmabile, ma in grado di apprendere e prendere decisioni in autonomia – sull’organizzazione della vita sociale? È il compimento di un’utopia, la liberazione dal lavoro, dall’inevitabile dimensione di “schiavitù” della produzione e riproduzione della via sociale? O, al contrario, l’avvento catastrofico di una nuova fase storica, la disoccupazione tecnologica di massa, a causa della crescente automazione “intelligente” dell’attività lavorativa?

In effetti, l’impatto sociale dell’intelligenza artificiale – a patto di non dimenticare tutto il lavoro invisibile su cui si fonda, e cioè l’immane addestramento umano, i processi di digitalizzazione, di implementazione di dati, ad opera di milioni di “lavoratori del clic” (Antonio Casilli) e di miliardi di utenti delle piattaforme –  è un problema. Ma quale problema è?

In gioco c’è il modo di organizzare la vita comune. Là dove la “macchina” libera il tempo di lavoro complessivo in precedenza necessario alla produzione e riproduzione della vita sociale, il problema diventa cosa farne del tempo di vita reso disponibile. In gioco, cioè, c’è l’utilità sociale degli individui.

Che cosa rende “motivante” l’esistenza di un individuo “disoccupato”? La risposta potrebbe essere semplice: la posizione di scopo, il fine che è dominante nella produzione sociale della ricchezza materiale e intellettuale complessiva di una società. Qui, però, si apre una tensione tra due direzioni della vita sociale.

Una, è quella esistente di fatto. La sfera complessiva della vita sociale è subordinata a un processo di valorizzazione del capitale, denaro che produce più denaro, come misura di valore; il suo fine equivale a sancire l’inutilità sociale di qualsiasi potenziale attività lavorativa individuale che non si conforma a questo metodo di governo della società, la sua riduzione a lavoro salariato. L’altra, dipende dalla possibilità di configu­rare l’attività lavorativa come immediatamente sociale, in  funzione diretta della vita in comune, della convivenza, aperta a spazi e tempi secondo una progettualità riflessiva della socialità stessa – rispondente alla domanda: che società vogliamo? In altri termini, significa subordinare la produzione sociale  a un comune controllo degli individui, della vita comune stessa.

Forse il tema del reddito di base universale o del salario minimo, che non si risolva sul terreno di una semplice redistribuzione della ricchezza esistente, può rappresentare il terreno di scontro di queste due diverse finalità della produzione sociale. La prima è conflittuale, quando non distruttiva e gravida di sofferenza, fino alla sua espressione, per quanto esaltante, più mortifera, la guerra. Per la seconda, vale ciò che dice Gabriele Vacis: «L’unica cosa più eccitante della guerra è la convivenza. Trovare il modo… so che è difficilissimo, e tutte le cose difficili sono coinvolgenti, sono belle!»

PS: Questa dualità di scopo si rende sensibile nella relazione antitetica che permane nella vita della massa degli individui, l’opposizione tra tempo di lavoro e tempo di vita.

(10, fine)

11. L’educazione sentimentale – Momento conviviale 1

Sull’educazione sentimentale e la narrazione

Enrica Origlia: – Stiamo dicendo che l’educazione sentimentale fondamentalmente dipende dai libri che si leggono, dai film che si vedono…
Gabriele Vacis: – Quel che insegno ai ragazzi è che per gli attori è molto importante la memoria…

12. L’educazione sentimentale – Momento conviviale 2

Sull’educazione sentimentale degli adulti e il femminicidio

Elena Apollonio: – Noi ci siamo concentrati sui ragazzi e sui bambini, come se noi adulti sapessimo tutto [risata].
Renato Tomba: Svezzati.
Elena Apollonio: Noi invece sappiamo. Siamo perfetti…
Gabriele Vacis: – Noi siamo stati educati, siamo laureati…
Elena Apollonio: – Noi siamo bravissimi in educazione sentimentale.
Gabriele Vacis: – …in educazione sentimentale.
Elena Apollonio: – Però è interessate questa cosa. […] Quando invece i femminicidi ci sono a tutte le età…