In arrivo / Cena Nº28 - Venerdì 29 Gennaio 2016

L’habitus: vestire l’individuo, abitare il mondo

con Sara Conforti

La moda vive del presente. Ne fa il tempo principale, il modello di riferimento del nostro stare al mondo, secondo un criterio di variazione incessante, per la quale il mutamento è un valore socialmente desiderabile.

La moda allora sembra essere il luogo per l’individuo di esercitare un potere, attraverso la scelta estetica e, soprattutto, attraverso il medium comune dell’abito, di affrancarsi dai vincoli sociali tramandati e tradizionali, e di sentirsi libero di esprimere la propria autonomia.
È quindi la moda il luogo elettivo di creatività individuale, responsabile?

O, non invece, un fattore di controllo sociale?

In effetti, l’industria della moda, un sistema che sfrutta risorse umane e naturali, promuove comportamenti di omologazione di massa e induce un ciclo irresponsabile di consumo illimitato, sembra piuttosto essere in conflitto, non solo con l’individuo, ma con lo stesso ambiente con i cui materiali l’individuo si veste.

È possibile allora – come si chiede Sara Conforti – «promuovere l’interesse legato all’abito come portatore di valori, cultura, tradizioni, identità, e sollecitare la nascita di un “modus vivendi” che riguarda sia una ricostruzione personale del proprio guardaroba per ri-condurlo ad un elemento più vicino alle nostre esigenze e personalità sia ad avvicinarsi ad una modalità di consumo che possa tenere in considerazione il recupero del rispetto per l’ambiente e per le persone»?
È possibile, cioè, una «moda sostenibile»?

Ad aiutarci in questa riflessione ci sarà appunto Sara Conforti.

Nota: La civil conversatione del signor Stefano Guazzo gentilhuomo di Casale di Monferrato divisa in quattro libri… «Nel primo si tratta in generale de’ frutti che si cavano dal conversare e s’insegna a conoscere le buone dalle cattive conversazioni; nel secondo si discorre primieramente delle maniere convenevoli à tutte le persone nel conversar fuori di casa e poi delle particolari che debbono tenere conversando insieme i giovani, i vecchi, i nobili e gli ignobili, i prencipi e i privati, i dotti e gli idioti, i cittadini e i forestieri, i religiosi e i secolari, gli huomini e le donne; nel terzo si dichiarano particolarmente i modi che s’hanno a serbare nella domestica conversazione, cioè tra marito e moglie, tra padre e figliuolo, tra fratello e fratello, tra patrone e servitore; nel quarto si rappresenta la forma della civil conversazione con l’essempio d’un convito fatto in casale con l’intervenimento di dieci persone».

Una provocazione.

Stefano Guazzo, autore del trattato La civil conversatione, pubblicato per la prima volta nel 1574 in Italia, con altre 20 edizioni entro la fine del secolo, e tradotto in Francia, Inghilterra, Olanda e Germania, ci offre uno spunto per il tema del nostro appuntamento.

Stefano Guazzo condannava «l’indiscretezza d’alcuni ignobili ricchi, i quali non si vergognano di vestirsi nobilmente e portare arme indorate a canto, con quegli altri ornamenti che converrebbono a’ soli cavalieri […]. Ed è scorsa ormai tanto oltre questa licenza in molte parti d’Italia, che così negli uomini come nelle donne non si conosce più alcuna distinzione de’ gradi loro, e vedete che i contadini presumono di fare concorrenza nel vestire agli artefici, e gli artefici ai mercatanti, e i mercatanti ai nobili […] Ma questo abuso e questa confusione voi non vedete già in Francia, dove per antica usanza sono introdotti gli abiti e gli ornamenti convenevoli a ciascuna sorte di persone secondo le professioni e gradi loro, onde all’abito solo potete discernere se la donna è moglie d’uno artefice o d’un mercatante o d’un nobile […].» (Guazzo 1574, Libro Secondo p. 84).

È una giusta preoccupazione per il disordine e la confusione che regna nella società a causa dell’abbigliamento?

L’abito rappresenta un fondamentale strumento di identificazione e distinzione sociale? Ma se ciascuno ha la facoltà di seguire variazioni di stile senza limitazioni normative, che ne sarà dell’ordine sociale?

1. L’individuo si trasferisce nell’abito

Chi siamo attraverso l’abito? Un’identità perduta.

A fabbricare la nostra identità, oggi, è la moda. Se la moda, attraverso il medium comune dell’abito, dalla politica del brand al fashion, ci affranca dai vincoli sociali tramandati e tradizionali, in realtà ci consegna a un sistema industriale fra i più pesanti – dalla manifattura leggera tessile all’industria petrolchimica – a un regime economico globale, che Sara Conforti non esita a definire «criminale».

Intanto per avere qualche notizia sul proprio marchio preferito, vedere qui: http://www.abitipuliti.org

2. Il mondo (dei marchi) che ci veste

Perché inseguire la moda? Perché sbavare per inseguire l’incessante continuo cambiamento, più o meno rapido, del nostro modo di vestire, del fashion?
È sostenibile questo stato di «bisogno continuo», di insoddisfazione, così ben programmata dalla strategia comunicativa dei grandi marchi della moda?

È sufficiente starne fuori? Forse non basta.
Ci sono ragioni più che sufficienti per «lottare contro». Non solo contro uno stile di vita, ma contro l’intero sistema produttivo e comunicativo del fashion.

Per capirlo occorre saperne di più. Qual è l’impatto economico–ambientale di questo sistema – la filiera reticolare di produzione del fashion – sul mondo delle nostre vite? Conosciamo davvero il vero costo degli abiti che ci vestono?

PS: Si consiglia la visione di The True Cost (2015), film documentario di Andrew Morgan.

(2, continua)

3. La storia del jeans, tra etica (del tempo) ed estetica

L’abito ci rappresenta? È immagine del nostro abitare il mondo?
A giudicare dall’estetica dell’«abito già rotto», la cultura dell’abito incarna il tempo del nostro vivere, e l’uso che ne facciamo. In gioco c’è il senso del nostro stare al mondo, tra estetica e etica.

La storia del jeans è, al riguardo, esemplare.

(3, continua)

4. La seduttività del brand

Che sacrificio si consuma nei templi dei grandi marchi della moda? Forse, davvero, quello della realtà – la «sostituzione del reale con segni del reale» (Jean Baudrillard).

L’abito, come qualunque altro oggetto “alla moda” da indossare, ci svela questa logica di appropriazione, di soddisfazione dei nostri bisogni “in eccesso”, sempre ancora mancanti, ancora sempre da soddisfare. E proprio perché la seduttività del brand sembra davvero confezionare – ancora Jean Baudrillard – un’iperrealtà «al riparo da ogni distinzione tra reale e immaginario, che lascia spazio solo per la ricorrenza di modelli e per la generazione simulata di differenze».

Nella ricerca compulsiva di segni, in gioco c’è la costruzione di ciò che siamo, della nostra identità. Una «distinzione» che opera però ancora sempre nella logica del nostro essere sociale, del riconoscimento da parte dell’altro. Che altro ci promette il brand?

Quale base, altrimenti, offrire al godimento? Dov’è, però, andato a finire il «qui e ora» delle nostre vite, del nostro corpo? E quello dell’altro, degli altri? Nell’epoca, soprattutto, della moltiplicazione, della disseminazione di noi stessi, della nostra immagine, entro la realtà tecnologica del virtuale?

(4, continua)

5. La salute dell’abito

La pelle, il nostro organo più esteso, è anche il più esposto al contatto.
Meglio sapere di che cosa lo si ricopre. E che nuovo non vuol dire pulito.
Per poi vestirci.

(5, continua)

6. Oltre l’armadio degli abiti

A fine serata, una riflessione condivisa.
L’armadio degli abiti mette alla prova la nostra identità. È lì che si nasconde la misura del nostro stare bene?

Ad andare oltre l’armadio, che succede? Che qualcosa permane. La forma che diamo al corpo, nell’indossare un abito, è al tempo stesso la nostra disposizione, la nostra abitudine a stare al mondo.

Ma questo nostro fare (abitare) è adeguato al nostro vivere? Se, appunto come dice Erik, è un vivere «senza esserci», senza essere «dentro noi stessi»? Quali pratiche di accettazione e di rispetto di sé stessi, nel nostro vivere, sono necessarie per dare forma al nostro essere come essere legittimo ad abitare il mondo, legittimo nella convivenza?

Se non altro, qualcosa succede, come intorno alla nostra tavola.

(6, fine)

7. Postilla – Il lavoro di Sara sulla memoria degli abiti

Il progetto Generazioni di Sara Conforti è un lavoro sulla memoria degli abiti. L’abito, un abito importante, genera emozioni nella vita degli individui. E ne nascono racconti – a volte al riparo di un Confaschion – e, anche, qualche riflessione sparsa sul senso della nostra identità.

Info:
– https://www.youtube.com/watch?v=kUFQ4tbtxSM /
– http://www.ilpattodellamontagna.com/sara-conforti-e-apecar-di-antica-sartoria-errante/
– http://www.falacosagiusta.org/torino/events/confashion-ritratti-vestimentari-a-confronto-2/