In arrivo / Cena Nº68 - Venerdì 9 Ottobre 2020

“Su una remota isola del circolo artico…” – Performance di Silvia Margaria con Oriana Persico e Salvatore Iaconesi

con Oriana Persico, Salvatore Iaconesi, Silvia Margaria

La proiezione collettiva di diapositive è un’abitudine del passato che coinvolgeva l’intera famiglia, spesso dopo cena, nel buio dell’ambiente intimo. L’autore degli scatti, seguendo il ritmo del carosello, raccontava storie, luoghi, momenti vissuti: quelle narrazioni, attivate e rafforzate dalle fotografie luminose, innescavano coinvolgimenti, interpretazioni, relazioni e comunioni.

La performance “Su una remota isola del circolo artico…”, attraverso la proiezione di una selezione di diapositive vernacolari trovate, tenta di ripetere quell’abitudine collettiva. Le storie legate a queste fotografie sono sconosciute, ma le immagini resistono al tempo con una narrativa che può essere di tutti, proprio perché non è più di nessuno.

In concomitanza con la proiezione, verrà letto l’epilogo del libro Una storia commestibile dell’umanità di Tom Standage, nel quale si racconta dello Svalbard Global Seed Vault, il più grande caveau per la conservazione dei semi. Il titolo della performance è la prima frase di questo capitolo, che tanto sembra l’incipit di una storia.

Sono semi fragili e resistenti, ma fragilità e resistenza sono opposti che non si escludono.

Insieme a Silvia Margaria tenteremo di ragionare sulla fragilità e sulla resistenza, attraverso il parallelismo tra i semi narrati nel libro e le diapositive mostrate.

1. Dalla convivialità a tavola a un’isola del circolo polare artico

Scatti fotografici a tavola, istantanee di una ritualità conviviale, un’occasione – negli anni ’50-‘80 – per intavolare storie di origine domestica. Una ritualità che entra a far parte della lunga ‘storia commestibile dell’umanità’ (Tom Standage).

Il caveau dell’isola norvegese di Spitsbergen, “la più grande e sicura struttura per l’immagazzinamento delle sementi”, sembra essere l’archivio – nel suo elemento essenziale, i semi, appunto – di quel lungo processo di domesticazione delle piante che segna la storia umana “dall’alba della dell’agricoltura alla rivoluzione verde”.

È una nuova occasione conviviale, quale storia ci consegnerà a tavola? E di quale futuro ci parlerà?

(1, continua)

2. Archiviare semi, seminare memorie

Cosa significa costruire un archivio, un deposito di memorie – come per un archivio di semi? Da che dipende la possibilità di dare una continuità temporale a documenti di memoria di cui esiste traccia? Una traccia, a volte involontaria, di memorie perdute, forse scartate?

La loro conservazione non può bastare. Ma è dalla loro stessa natura di “documento” – nel suo senso etimologico, da ‘docere’, informare, far sapere, insegnare – che trae senso la loro archiviazione: dalla possibilità cioè di continuare a trarre un insegnamento da quelle tracce materiali (come lo è una diapositiva).

Un futuro della memoria è possibile proprio a condizione di sottoporre quei materiali a un processo continuo di interpretazione, di rimescolamento nel contesto attuale delle nostre vite, e forse della storia tutta. Un gettare semi in un terreno, e nel cui gesto si genera il cambiamento stesso.

(2, continua)

3. La scelta estetica: una “messa in relazione” conflittuale?

Come è possibile fare una scelta estetica che appartenga a una memoria condivisa? È questo la domanda che Silvia Margaria ha posto al centro della tavola. È una scelta che avviene sempre in un contesto, entro un sistema ‘sensibile’ di relazioni sociali con e nella natura, a volte, o forse più spesso, conflittuale; è quindi una scelta che interessa profondamente la natura dialogica della stessa vita umana.

Come dice Michail Bachtin: «Vivere significa partecipare ad un dialogo: interrogare, ascoltare, rispondere, consentire, etc. In questo dialogo, l’uomo partecipa tutto e con tutta la vita: con gli occhi, con le labbra, con le mani, con l’anima, con lo spirito, con tutto il corpo, con gli atti. Egli mette tutto sé stesso nella parola, e questa parola entra nel tessuto dialogico della vita umana, nel simposio universale».

Ma, allora, in presenza di oggetti computazionali, di dispositivi di intelligenza o stupidità digitale, come cambia il ‘dialogo’ estetico, la sensibilità del nostro apprendimento a vivere?
Un interrogativo sollevato a tavola da Oriana Persico e Salvatore Iaconesi.

(3, continua)

4. Del sentire, o della relazione tra natura umana e mediazione tecnologica

Qui a tavola, in un excursus dal tema principale, una questione non da poco – su impulso di Oriana Persico e Salvatore Iaconesi.

È la sensibilità umana per il dolore e il piacere che differenzia la natura umana da una macchina evoluta di intelligenza artificiale?

Ma in quale “spazio” si sviluppa lo stesso “sentire”, l’intelligenza sensibile dell’essere umano? Non risulta forse da un processo di apprendimento, che è in sé stesso un processo di coevoluzione, di interdipendenza reciproca della natura umana dalla mediazione tecnica che la pratica umana esercita nella e con natura?

Il “lavoro” artistico di Silvia Margaria – che sta dietro alla sua proiezione “tecnica” – non ha forse svolto proprio questa funzione? Quella cioè di “mettere in gioco” quella sensibilità, quell’interesse negli altri e per gli altri, consentendo così di condividere immaginazioni diverse, plurali tra i partecipanti, e con ciò anche di farne emergere nuove possibilità.

(4, continua)

5. Memorie del vivente e agenti computazionali: una nuova alleanza?

È possibile una “nuova alleanza” tra esseri umani e dispositivi dell’intelligenza artificiale? Una alleanza cioè che possa aprire spazi di «performance» per una socialità sensibile, non assoggettati assoggettata agli assetti proprietari delle grandi piattaforme digitali. Uno spazio di cura delle relazioni sociali nel fare dell’arte – e prima della catastrofe climatica o umana che l’archivio dei semi dell’isola di Spitsbergen preannuncia.

È possibile, a partire da una riflessiva relazionalità tra il vivente – l’intero corpo del vivente – e gli agenti dell’intelligenza (o stupidità) digitale, ipotizzare una progettualità del futuro, della storia stessa? È forse questa fondamentale «messa in relazione» – materiale, sociale e culturale – delle “memorie” del vivente a rendere possibile una comprensione della storia dell’essere umano come «processo», che si fa con e nella natura, e della «natura come suo corpo reale».

Allora perché non «ri-partire» da qui?

(5, fine)