Il club, una pratica dell’esodo

Che contenitore di progettualità e innovazione è, infine, il club?
Parte di un processo di «rigenerazione urbana» (di spazi dismessi, come ex-fabbriche), catalizza nuove energie di sviluppo locale del territorio, di valore economico e sociale; e, al tempo stesso, affonda le sue radici nella forma arcaica di un rito collettivo.

Lì dentro, il corpo si fa iperattivo, danza e si agita, sotto l’effetto del suono elettronico della musica. È l’esperienza dell’enthousiasmòs dei misteri dionisiaci, l’esperienza della «trance». Ma di più ancora, questo è ciò che vuole essere nella sua proposta culturale, ed esserlo in tutta l’estensione del significato del termine trance, derivato dal latino, e cioè un transitus: un rito di passaggio, di iniziazione, e insieme una pratica sociale dell’«esodo».

E non solo «dentro» – uno spazio di esperienza segnata da un’alterazione dello stato di coscienza, da un elevato grado di esaltazione psichica e di grande vigore fisico – ma anche «fuori».

Quell’esaltazione, quella mania, «che nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini» (Platone), vuole essere una pratica sociale, né di resa né di contrapposizione, ma una pratica di sottrazione, di fuga, di scarto verso spazi altri. E, seppure condivisa, viversi più come espressione individuale che collettiva.

Cosa reclama questa voglia di liberazione? Qualcosa che ha a che fare con il desiderio e il godimento, e con la tensione tra questi due condizioni dell’esperienza.

(4, fine)

Video appartenente alla cena: