La viltà, anatomia e storia di un male comune – Parte seconda

È cambiata la viltà nel tempo? Questo male comune, che attraversa la tradizione culturale dell’Occidente, ha conosciuto una trasformazione nel tempo: se la «viltà degli antichi» era un attributo in prevalenza sociale, che toccava diversamente i nobili e i plebei, le donne e gli uomini, quella «dei moderni» è un attributo di natura più psicologica, è spalmata sull’intera umanità e apre a inedite dinamiche di potere della vita sociale.

Per Peppino Ortoleva, nel grande passaggio al mondo moderno, un evento storico, nel corso della Rivoluzione francese, è indice di questa grande trasformazione: la battaglia di Valmy, la prima importante vittoria della “plebe” rivoluzionaria nella guerra contro l’esercito aristocratico della Prima coalizione. La scelta tra viltà e coraggio non è più un privilegio di pochi, ma lo è di ogni essere umano, almeno nella forma di soggettività che è alla base della società borghese dell’Illuminismo, quella della “cittadinanza”.

Nel Settecento la concezione della viltà e del coraggio muta quindi in relazione a un cambiamento sociale radicale. Il romanzo, soprattutto per la figura femminile (Pamela o la virtù ricompensata di Samuel Richardson, 1740, Lady Roxana. L’amante fortunata di Daniel Defoe, 1724 e La monaca di Denis Diderot, 1780/1796), è insieme segnale e veicolo di questa trasformazione. Nella modernità, la manifestazione del coraggioso o della viltà diviene una responsabilità personale, una questione di padronanza di sé, di scelta, che dipende dalla possibilità di riconoscere il bene e il male a partire da una propria condizione interiore.

Allora, il tema etico della viltà e del coraggio, per Peppino Ortoleva, ci pone di fronte a un problema, quello della libertà di scelta (il “libero arbitrio”), o in altri termini, secondo la formula manzoniana, alla domanda: fino a che punto il coraggio uno se lo può dare? E lo fa nei termini di un principio etico, per cui non c’è bisogno di fare riferimento a valori astratti, religiosi, ma a qualcosa che esiste come condizione problematica della nostra stessa convivenza.

(2, continua)

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