L’ecologia sociale ha l’obiettivo di aiutarci a comprendere i complessi legami tra crisi ambientale e sfruttamento sociale. Le attuali crisi ecologiche, come è sempre più evidente, sono profondamente radicate nelle attuali strutture sociali gerarchiche. Questi sistemi di dominio si manifestano in varie forme di esclusione e oppressione, tra cui la concentrazione del potere economico e politico, il sessismo, il razzismo e il patriarcato. Una critica ecologica della società richiede allora di mettere in campo una pluralità di punti di vista, dal femminismo radicale all’antirazzismo e ai movimenti anticapitalisti? E questa critica del presente è sufficiente per comprendere la questione essenziale di una riconciliazione tra la società umana e la natura non umana?
In una situazione di crisi continua, l’attuale modello di sviluppo economico, il capitalismo, rappresenta una frattura nel processo del “metabolismo sociale”, nel processo di trasformazione energetica che è un vincolo per la riproduzione della vita tutta. La riproduzione della società, sempre più svincolata dai tempi dell’evoluzione naturale, si sta rovesciando attraverso pratiche di omogeneizzazione della società nella distruzione stessa degli ecosistemi. L’ecologia sociale propone di rigenerare le comunità con pratiche basate sul mutualismo, la cooperazione e la solidarietà sociale, oltre a sviluppare una consapevolezza ecologica.
Insieme ad Federico Venturini* esploreremo la proposta di costruire “culture di resistenza”, al fine di realizzare utopie composte da comunità decentrate e a misura d’uomo, con istituzioni politiche dove i cittadini partecipano in modo egualitario, con una rigenerata relazione con la natura.
* Federico Venturini è un assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Udine (Italia). Attualmente si occupa di Zero Waste, ecologia sociale, contratti di fiume, e processi partecipativi. Dopo le lauree specialistiche in Filosofia e in Storia e Civiltà Europea, nel 2016 ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Leeds (Regno Unito). Concentrandosi sulle esperienze a Rio de Janeiro tra il 2013 e il 2014, nella sua ricerca ha esplorato le relazioni tra le città contemporanee e i movimenti sociali urbani, utilizzando l’approccio partecipativo, attraverso la lente dell’ecologia sociale.
Dal 2013 è membro dell’Advisory Board del Transnational Institute of Social Ecology e fa parte della delegazione internazionale di Pace di İmralı, organizzata dalla EU Turkey Civic Commission. A partire da queste esperienze ha curato insieme a Thomas Jeffrey Miley il libro La vostra libertà e la mia: Abdullah Ocalan e la questione curda nella Turchia di Erdogan (Punto Rosso) e con Emet Degirmenci e Inés Morales il volume Ecologia sociale e Diritto alla Città (Zero in Condotta). In quanto attivista nel processo di pace fra lo stato turco e il popolo curdo è intervenuto presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo, il Parlamento europeo a Bruxelles e la Camera dei Comuni e dei Lord a Londra.
Immagine di copertina: Ripresa aerea di una strada circondata da alberi verdi, foto di Geranimo su Unsplash
1. La crisi ecologica, un problema ambientale e sociale insieme
In base a quali parametri critici possiamo dire che la crisi ecologica è profonda? In base a Nove Confini Planetari, ovvero ai limiti ambientali entro i quali l’umanità può continuare a svilupparsi e a prosperare in sicurezza. Definiti nel 2009, quali sono oggi i confini che sono già stati superati? Ma non c’è solo una crisi ambientale. La crisi ecologica interessa anche l’intreccio della vita sociale, le strutture economiche, politiche, istituzionale e culturali della società.
L’approccio dell’ecologia sociale ci permette di rilevare l’interdipendenza tra crisi ambientale e crisi sociale. “Non può esservi infatti giustizia climatica ed ecologica senza che vi sia nello stesso tempo giustizia sociale” (da Ecologia sociale e diritto alla città). Ma è sufficiente parlare di crisi ecologica come conseguenza di un sistema di dominazione di origine umana, antropogenico – dell’Anthropos, l’uomo, come specie, sulla natura e, come genere maschile (bianco occidentale), sull’organizzazione sociale?
In ogni caso, la catastrofe ambientale richiede di portare l’attenzione su un processo reale di liberazione da un sistema di dominio. La proposta di Federico Venturini è quella di attivare dal basso culture di resistenza, in grado di costruire comunità la cui pratica sia espressione di nuove relazioni nella e con la natura e all’interno della società stessa, di comunità liberate e libertarie, che prosperano in un processo di coevoluzione tra natura e società umana.
Come allora creare culture di resistenza in grado di dialogare, di tradurre in un linguaggio e in una pratica comune il desiderio di non essere dominati?
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2. Quale linguaggio per culture di resistenza: dominazione o dinamiche materiali di classe?
La crisi climatica del mondo si fa percepibile. Affermare che la responsabilità del disastro è “sistemica” è essenziale, perché dimostra che, se il nostro stare al mondo è a rischio, non è perché l’Anthropos, l’essere umano, è per sua natura malvagio, ma perché è organizzato, da quattro secoli a questa parte, secondo la macchina del profitto capitalistico: una dinamica di appropriazione della ricchezza che, nel tenere insieme l’esistenza degli individui in una reciproca indifferenza (dell’egoismo, del cinismo), esercita il proprio controllo attraverso una diffusa e pervasiva esistenza di rapporti di sottomissione, di dominazione, secondo una logica di estrazione “a buon mercato” della ricchezza, fino a una devastante alterazione dell’equilibrio ambientale. Quindi, a proposito dell’era geologica attuale, non di Antropocene* bisogna parlare ma di Capitalocene.
Ma come fare di questa comprensione uno strumento di lotta per culture di resistenza? È sufficiente ricorrere alla terminologia della lunga tradizione marxista della lotta di classe per far fronte all’urgenza di cambiare il mondo? Per Federico Venturini, quella tradizione, che pure fornisce strumenti di analisi economica e strutturale indispensabili per comprendere il funzionamento del mondo, non è sufficiente. Quel che occorre è “un linguaggio che manca” per riuscire a fare i conti col nostro essere, al tempo stesso, vittime e beneficiari di quel sistema di dominazione e, insieme, per riuscire a immaginare “un orizzonte utopico comune” di mondi possibili.
Intanto, occorre guardare a culture di resistenza in giro per il mondo, dalle comunità curde in Rojawa al movimento zapatista in Chiapas, che sperimentano nuove forme di autodeterminazione, e guardare nel cuore stesso delle metropoli ai molti collettivi che sperimentano spazi sociali di gestione come luoghi di mutualità, di solidarietà e di riflessione comune.
* Il 4 marzo 2024, la Commissione Internazionale di Stratigrafia ha respinto la proposta di istituire l’Antropocene come una nuova epoca geologica formale. Secondo la nomenclatura ufficiale, dunque, ci troviamo ancora all’interno dell’Olocene
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3. Un’identità rivoluzionaria ma per quale “soggetto di cambiamento”?
Una società diversa è possibile? Ma per “rompere” con l’esistente – con la condizione antagonista e contradditoria della società attuale, dove la generale socializzazione del processo di produzione della ricchezza è segnato da diseguaglianze crescenti e finalizzato a una smisurata appropriazione da parte di pochi – di quale immaginazione c’è bisogno? Esiste, oggi, un “soggetto rivoluzionario”, portatore di una tale istanza critica, di una possibilità di cambiamento dentro il sistema di dominazione, per lo più fortemente interiorizzato, del modo di produzione capitalistico?
Come si costruisce un “soggetto di cambiamento”? L’identità di un soggetto collettivo è già sempre situata all’interno di una storia naturale e una storia sociale in un processo di dipendenza reciproco: è possibile attingere da questa storia evolutiva modelli di comportamento – di competizione, cooperazione, mutualità – per un’etica emancipativa utile alla costruzione di una società ecologica o una ecologia sociale (“naturalismo dialettico” di Murray Bookchin)? Quale ruolo vi gioca il principio dell’universalismo illuminista – la cui affermazione coincide per altro con la formazione stessa del modo di produzione capitalistico? Questa eredità è una condizione imprescindibile per istituire una “identità aperta”, una “soggettività rivoluzionaria”, aperta cioè alla “contaminazione” culturale, alla trasformazione che dà origine a qualcosa di qualitativamente nuovo nella convivenza?
Per Federico Venturini, una forma “rivoluzionaria” di soggettività non è definibile in base a formule prestabilite desumibili dal passato storico di una collettività – la sua identità etnica, culturale –, poiché tutto ciò che è parte di una storia naturale e di una storia sociale è già sempre in uno stato di costante cambiamento. Quel che è certo, invece, è che la critica dell’esistente, nel momento in cui è tale, è una forma di conoscenza che è anche forza storica reale di trasformazione. E il mondo attuale non manca di esempi.
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4. Una proposta di metodo per creare culture di resistenza e fare comunità
Un “linguaggio nuovo” può anticipare una nuova modalità di convivenza? Un linguaggio aperto al cambiamento, dunque. Se la convivenza umana nel e con la natura non umana è già sempre in uno stato di costante cambiamento, come potrebbe il linguaggio anticipare il movimento verso un “mondo che vogliamo”, liberato da una dinamica di rapporti di dominazione?
La proposta di metodo di Federico Venturini è un approccio pratico al cambiamento – Discover/Scoprire (informare), Engage/Coinvolgere (avere a che fare), Transformer/Trasformare – in grado di promuovere, in una spirale crescente, una comunità – anche piccola, impegnata in esperienze di natura sociale, culturale o economica – a comunità di apprendimento nel corso della sua stessa pratica.
In questa prospettiva, la comunità – ad esempio, già a livello di quartiere – è al centro di una progettualità politica. Al tempo stesso, è una progettualità politica che ridefinisce i confini dell’esperienza individuale: un invito all’individuo a “fare comunità”. «È un appello duplice: la comunità nuovamente al centro per un futuro, una possibilità o un certo ruolo per un soggetto di cambiamento e contemporaneamente anche un invito a noi come singoli di metterci in gioco per la comunità».
Per creare culture di resistenza, e un mondo possibile, da qualche parte bisogna cominciare. A scala più piccola, passo dopo passo. Diversamente, non abbiamo alternativa.
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5. Sostenibilità: responsabilità individuale o soluzione tecno-scientifica?
Fare la raccolta differenziata dei rifiuti è importante. Che la sostenibilità ambientale dipenda dalla raccolta differenziata è però, per Federico Venturini, una favola. La responsabilità della crisi ecologica non è riducibile a una scelta virtuosa individuale. È una crisi sistemica, e dipende dal sistema capitalistico di produzione e di consumo.
Ed è un problema di scala. Non si può astrarre dall’azione responsabile su scala individuale. Ma occorre riattivare l’“immaginario dell’azione collettiva”, come critica pratica dell’esistente. Perché delegare alla scienza la soluzione tecnologica della crisi ambientale e sociale significa dimenticare che la scienza non è “neutrale”: è una conoscenza che si risolve in un potere pratico sulla natura, ma, di questo potere pratico, una cosa è farne una comprensione della natura come “corpo reale” della convivenza umana; altra cosa è farne, in una logica strumentale, una funzione estrattiva e parassitaria di dominio sulla natura stessa.
C’è una dimensione conflittuale, oppositiva, nell’impiego della scienza: al servizio di quale prospettiva di cambiamento essa è utilizzata? Ma “che fare” intanto, oggi? Quale approccio avere verso le politiche di mitigazione e adattamento messe in campo dal potere statale, un decisore influente sulla vita comune?
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6. Come parlare di bisogni anti-ecologici in una società a economia capitalistica?
Come parlare di bisogni nella prospettiva di una “cultura di resistenza”? Se la realizzazione individuale consiste, oltre che nel soddisfare un bisogno attraverso il consumo, nell’appagare il desiderio stesso di consumare, in base a necessità, a “bisogni indotti” via marketing (mode); e se poi la performance consumistica come stile di vita si è “normalizzata” all’interno della società, al tal punto che a essere consumata è l’esistenza tutta dell’individuo – dall’esposizione sui social network commercializzati alla turistificazione della vita urbana –, come riuscire a parlare dell’impatto ecologico della nostra “propensione” al consumo?
Il rischio è applicare alla natura dei bisogni una critica moralistica. In una società a economia capitalistica, l’accesso a beni di consumo – “superflui” o “necessari” – attraverso la modalità sociale della loro offerta, e cioè il mercato, è in effetti una cosa normale. L’induzione al consumo, che si realizza attraverso l’“invenzione” non tanto dell’utilità ma della desiderabilità di qualsiasi cosa, è oggi così pervasiva da fornire quell’orizzonte – valoriale, simbolico e culturale – per cui il senso del nostro stare al mondo non è pensabile al di fuori della realtà dell’economia di mercato capitalistica.
All’interno di questo orizzonte, come può un discorso produrre quell’alternativa radicale al modello di crescita della macchina capitalistica, che la transizione ecologica richiede? Eppure, la pandemia del 2020 avrebbe dovuto al riguardo insegnare qualcosa.
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7. O socialismo o catastrofe climatica: quale spazio per fare comunità?
La crisi ecologica è a un punto critico della storia umana. La grande estinzione dell’attuale era geologica (l’Olocene), la sesta estinzione di massa delle specie, nella sua fase più recente (del Capitalocene) ha assunto una forte accelerazione: la condotta predatoria, distruttiva, anzi mortifera, dell’umanità – quasi come fosse iscritta nella sua stessa natura – si sta avvicinando a superare tutti i Nove Limiti Planetari. Sulla soglia di una insanabile “frattura metabolica”, di un inconciliabile squilibrio tra rigenerazione della natura e riproduzione delle condizioni di vita sociale, la sopravvivenza stessa della specie umana è a rischio.
Un tale contesto non sembra lasciare margini di tempo per una rivoluzione trasformativa del sistema di domino che regola le dinamiche economiche e politiche della società. Quali prospettive quindi per il futuro? Una volta si diceva socialismo o barbarie. Per Federico Venturini, oggi l’alternativa è «socialismo o catastrofe climatica». L’approccio dell’ecologia sociale può fornirci le risorse immaginative per concettualizzare un “mondo diverso”, una nuova alleanza del mondo umano con e nel mondo naturale? E rendere desiderabile raggiungere la pienezza di una tale possibilità evolutiva?
Una domanda allora: come possiamo “metterci in gioco” all’interno delle nostre comunità, e fare i primi passi verso un mondo diverso? C’è però ancora un problema: come circoscrivere uno spazio del mondo, tra il suo essere reale e virtuale insieme, entro cui “fare comunità”?
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8. Appendice – Su critica e auto-critica nell’esperienza di comunità
L’attività conviviale è carica di aspettative. Il piacere condiviso della tavola trova la sua misura, non così scontata, anzitutto in un’esperienza sensoriale, quella della diversità degli appetiti e dei gusti alimentari; e poi a tavola si sperimenta quel senso di appartenenza, di messa in comune emotiva, affettiva e mentale dell’esperienza di sé, da cui risulta evidente che la propria individualità esiste in relazione a quella degli altri. E la cosa non è così banale.
Nel “far parte” di una comunità, si può sperimentare in un qualche modo un senso di aumento o di diminuzione, se non di perdita della propria individualità. Come far fronte a questa situazione? Federico Venturini suggerisce di richianmarsi al movimento di liberazione curdo, che «dal movimento maoista ha preso e mantiene l’esperienza della “critica e auto-critica”» all’interno di un contesto di vita comunitaria.
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9. Ecologia sociale e culture di resistenza – Momento conviviale
La torta del pane per due anniversari
Federico Venturini: – Chi ha fatto il dolce?
Renato Tomba: – Io, è l’unico dolce che so fare. È la torta del pane.
Nota: La ricetta della torta del pane è tipica dell’economia di riciclo della tradizione contadina.